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Pensai, o dolce Musa,
d’averti allor perduta
ché divenne poi muta
la lirica mia man.
Il mio udir tendendo,
nei dì, sentii, passanti
le note note andanti
che nel grembo Tuo stan.
Quante lagrime, o Musa,
in quel pietoso stato,
ché al core mio spezzato
mancavan le parol.
Ne li fuggenti dì,
ché’l dir tuo non udia,
arido mi sentia,
come sanza acqua il suol.
Affranto il cor e buio,
qual la notte deserta,
aspra come un’erta,
l’animo inerme fu.
Fui inerme, non morto,
qual fulvo fior gelato,
sotto la neve nato,
ché ancor avea virtù.
Amor sul fior degli anni
erami sconosciuto,
il suo cantare muto,
quel che gioia ci dà.
Con nel core mestizia,
il calor de la Dea
tristemente attendea,
finché qualche dì fa,
Te, o Musa, risentii:
che cori, che speranza!
E sul far della danza,
non volli più perir.
E da le ceneri, simil
all’augel vermiglio,
nel petto il fulvo giglio
sì volle rifiorir.
Sentii vita nuova:
svanì il niveo letto,
il fior cangiò d’aspetto:
io riviver vo’.
Rifiorì il Fuoco Sacro:
nel petto fu calore,
nel cor di nuovo amore:
dissi a la morte no!
Lungi furon l’affanni,
le paure lontane,
e come da fontane,
con estremo vigor,
limpida sgorgò l’acqua,
fiume di contentezza,
or più che mai avvezza
al de la Musa ardor.
Passato il bruno autunno
de la vita, fiorita
di novo la preferita
de li uomini stagion.
Di novo primavera,
man alla penna metto,
e sotto il secur tetto,
a scrivere mi pon.
Placido esce lo scritto,
come acqua di sorgente
che sì tranquillamente
s’abbandona nel mar.
Son rinato, mia Musa!
Devo a Te questo canto
che dopo tanto pianto
torna sì a risonar.
Infin io son sereno,
infin pace trovai,
infin dunque afferrai
che Lei gioia dà:
Lei, la Poesia,
composta per nessuno,
gioia del cor d’ognuno,
propria felicità!
Lasciarti più non vo’,
o Musa, tuo sarò
finché in pace morrò. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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