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E da te venni dal pudibondo desio chiamato,
che cotal forme di donzella
al morfeo ora si desta a me,
e ramingo mi veggo in codesto tuo lasso,
ove i sogni che fanno virtude,
lambiscono il tempo del risveglio,
quel che tu non hai memoria e vanisce in fretta,
ma il sapor ti grava come vissuto
che pur rammenti e in un baleno svanisce,
raggio a raggio che il sole cresce.
Oh mia eterna fautrice,
quanto mi duole il di te ricordo e quel che non si dice,
che pur mi preme e fa del mio desio di te,
il fausto giorno che ti avrei veduta in vesti spoglie,
a far dell’imbrunir mia sola amata
e cotanti sospiri e lieti pianti degli infanti
che aveano da bagnar le gote odorose
e il barocco del sentimento per poi giacere lasso,
e il dì che segue aprir le lame e l’occhi tuoi
e la purpurea bocca ricoprir di brame,
a far del tuo risveglio promessa, fede e sposa
e per te, di me, libagione di mille vite
Oh! mia Afrodite.
Tu, rosa dello stesso oblio ch’io vivo come miraggio,
qui mi duole,
sentir che il ricordo le lacustri nebbie apre e così fu.
Come venni andai,
mentre il sonno tuo svanisce io scrivo amor
e così ti lascio segno e scritto,
che io qui sono nel tuo presente,
ad aver dimora, nel limbo tra sonno e veglia
ove tutto puoi, per il dí seguito
ove verrei io nel tuo presente, anima, cuore e orgoglio,
se mi vorrai e io... ma tu già sai
lo voglio... | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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Bella e apprezzata, un caro saluto! (Marinella Fois)
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