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| Di nebbia
che lenta si leva,
che asconde
alba già tarda;
di tetti adusi
al tempo
e fremiti di cielo,
è il mattino.
Giorno di campi
arati, che
segnano presenze
e silenzi
immacolati di pianto,
corsie preferenziali
di domati tumulti
sopiti negli anni,
che ingiungono
inerzia d’azione
su logore resistenze.
Perché mi urli di verde
e non intendo,
e mi rapisci lo sguardo
e m’illumini il respiro,
ti fingi immoto
ad oltranza
mentre muti d’orizzonte?
Matese antico,
di cammini e civiltà,
chi primo ti vide
di Sabelli guerrieri
ammaliasti di roccia
e di imberbe innocenza;
e or t’imbelli,
osservi e stai,
eterno custode
d’esistenze,
vegliardo sagace
di epigoni
Sanniti.
E te la ridi,
una nuvola
che fa da vessillo,
sotterre ruine
di gloria che fu.
Urla, ti prego, più forte,
scuoti un popol
che dorme beato
dimentico di valore e di beltà. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«La visione del massiccio del Matese: un dono che ricevo ogni giorno al primo sguardo dalla torretta. Strali di nebbia si alzano e campi arati, e la montagna resta immota ad osservare il cammino del giorno e degli anni. Di fronte a tanta bellezza, rifletto sulla meraviglia che dovette provare il primo dei Sabelli o Sanniti che, nell’ambito di una Primavera Sacra, giunsero qui, alle sorgenti del Tifernus, rapiti dal luogo che scelsero a loro capitale. E penso allo spirito battagliero, che non mi appartiene più, sedato dagli anni, e ad un popolo che ha deposto le armi e rinunciato al passato» |
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