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Lo sguardo effìmero
d’un fiore, l’ùltimo
che la tempesta
ivi ha nutrito
del deserto, àgile
alla funesta
ombra contrito
del Sole d’Africa
or si rivolge.
Scruta tra’ i tròpici
dell’orizzonte,
ascolta il mùrmure
del folle Oceano
da cui un dì vènnero
i suoi oppressori.
Suda la fronte
nera, e i sudori
scèndon tra làgrime
che tanto càntano
più mesto addio
alla sua terra,
alle sue belve,
un cupo càntico
silente e tàcito
che va per l’ètere
che brucia impàvido
per l’atmosfera.
Sente ei la guerra
che tra le selve
sìbila e tuona,
con le catene.
Tarda la sera.
Non è che un giòvine
imberbe pàrgolo
illuso e misero
che non del tàlamo,
non delle prònube
odi ha l’età;
ma adolescente -
appena... appena -
ancora vive
il blando àttimo
di vecchie fole,
di Sogni e d’ìncubi,
dinnanzi a sé
ha Vita intera.
Pur triste va
via da sua gente
che curva ischiena
alle corrive
miserie oscene,
dove la prole
di fame muòr.
Scruta ne’ i pàlpiti
bei d’una ròndine,
il cuòr le intèrroga,
con lei desìdera
a Primavera
fuggìr dall’Africa,
sogna l’Europa,
colà imparare
un buon mestiere,
fare fortuna,
e a sé chiamare
i familiari.
Sogna sposàrsi
con falba Luna,
o stella nera,
avere figli.
Crede che Uomini
siano fratelli,
che avràn pietà
della sua infanzia.
E nel frattempo
saluta in frèmiti,
fa scènder làgrime,
la madre mìsera
con le sorelle,
e tra altri mìseri
parte all’incògnito
viaggio, e ne dùbita,
poi un poco càlmasi,
e va a speràr.
Addio, nostàlgiche
steli degli Avi,
che di remota
gloria qual Sole
e qual suoi specchi
brillate all’èremo,
confuse a volte
con le sue dune!
Addio, sì vecchi
villaggi e paglie
che all’ombre d’àlberi
eterni avete
nel vostro cuore
e bimbi e spose,
e saggi e padri!
Addio, città,
infami covi
ma sì possenti
dell’oppressore,
donde fu un dì
che schiatte uscìvano
di schiavi d’Arabi
e di sì pàllide
follie d’Europa!
Addio, oh leoni,
che in voi serrate
fatti famèlici
gli antichi Spiriti
d’Avi ancestrali,
e che attendete
pazienti e truci
le vostre vìttime!
Addio, oh voi! serpi
il cui terribile
morso difèndesi
a’ folli che varcano
le calde selve!...
E il giovinotto
così cantava,
muto... tacente,
e ripensava
il sen materno,
il dolce affetto
fàttosi eterno
dentro il suo petto;
e poi sognava,
e ripeteva:
- Avràn pietà! -.
Dopo sei lune
egli giaceva
supino, morto
sopra la sabbia
di lido sìculo.
Era annegato,
nei Sogni assorto
esalò l’ultimo
respiro ansioso
in un baleno.
E molti dìssero: -
Era un furioso! -
altri lagnàrono
- Bene! Uno in meno! -. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«La presente Poesia è al di sopra, al di là di ogni intento politico e partito politico. Pertanto ogni commento politicizzato non sarà da me gradito.» |
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