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Tanto mi è amaro il meriggio dell’Angiolo,
e il dì trascorso della festa santa,
e la notturna sera, e i vecchi áttimi
de’ i ripetuti Sogni e della noia,
e il vano disperàr per spenta gioia,
o per lontana requie, oppùr pe’ il sonno
che dopo tanta illusïone viene
a togliere dal giorno la mia spene,
pur non appena il Sol tramonterà.
Ah! sì ch’io piango a che so che alle ripe
dell’Arbogna mia quieta i pescatori
assaporano il vento dell’aprile,
e saltano i monelli per i campi,
e corrono i mastini per i boschi,
e all’onde nel scintillio in specchio al Sole,
cinti i capelli di rose e vïole,
come Ninfe, fanciulle lietamente -
o come belle Sirene del Reno -
sguazzano co’ i velami opachi al seno,
fino a che sera non si mostrerà.
E come pianto, e poi päura, e dubbi
il cuor mio assalgono i Ciel delle pievi,
convinte effigi di ghiaccio e di nevi!
severe impronte di severo Genio,
dove a me ignoti Santi con lo sguardo
gl’indici érgono alle falbe nubi,
e mi rimproverano a che son vinto
da Sogni, e speni, da’ il senso e da istinto,
e mi dìcon che tutto è Vanità.
E in questo Caos primordiale e furente,
quasi impazzito tra infinite scelte,
e ‘ve la Vita ne richiede poche,
allor io fuggo la festa e l’altare,
non voglio abbracci, né abito talare:
m’è conato di vomito pensar
a donna e a baci, e dispiacer m’è poi
non averli, e m’è sprezzo l’èsser prete,
e trista doglia questa eterna sete
d’andar oltre le vane ombre in vêr Dio;
e mi vergogno di vìver, sognare,
d’essere figlio della schiatta d’uomo,
come indeciso, serpeggiante atòmo
che dopo tanti scontri svanirà.
Eppure ho gelosia di quanti colgono
presunta gioia nel meriggio che scorre,
e che accettano il vìver per quel che è,
Vanità eterna! alti superomisti
che bevono l’Eterno presso i talami,
o sugli altari, e rìdon fino a sera
e si accontentano or d’una preghiera.
Ma dinnanzi a Iddio, chi si salverà?... |
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