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La nebbia geme la pioggia serale,
tra le campagne che sembrano spettri, e
tra le Alpi ombrose; e la Notte sovviene. Eh!
E io ovunque volgo, contemplo l’autunno
vespertino, e il notturno ciel che muore, e
ai brividi e al venìr del maëstrale io sto,
e singhiozzando tremo ai freddi scettri
delle più nuove brine. E sono cene - il desco mio -
dell’Anima le foglie di quest’Unno
che è ottobre, meste, e povere. E il grigiore
delle nozze dell’acque con le brume
è così, dunque, che toglie ogni lume.
Allor mi par che gema l’aïrone,
lì, dove al pioppo il mio cuore s’inonda
di sogni senza nido, alla giuncäia
imperfetta del sonno. E il vecchio ontàno - lo sento! -
qui mi chiama per nome, e stilla pioggia. E
la quercia piange, e le frasche son prone, e io
son irrequieto a questa vagabonda
rondine che ne ha fame, e la risäia
non ha più nulla da darle, e la roggia
è terrea e vuota, antica sete. E lontano
sogno per lei il banchetto d’una duna,
e m’illumina il pianto in ciel la Luna.
Donde nel piòver m’è il vespro infinito,
e sparsi nella pioggia i miei paësi, e
ora irriconoscibili i miei monti,
e i campi intorno, e i rustici tugùri,
e il campanile della chiesa santa.
Allor d’accanto si apre indefinito
il mare dei più freddi e mesti mesi,
e i sempre crepuscolari orizzonti
anche nell’alba, e dei singulti oscuri, e
dei Sentimenti. E il mio spirito canta
le sue canzoni e il suo dolce sognare e...
e vivere vorrei, e transumanare. E
tra il tintinnìo delle piogge che vanno oscene
ora che è sera ascolto bàtter l’ore
che m’invitano ai salmi e ai bei pensieri miei
dove l’altare è il sovrano del sogno, lì,
quando tremando mestamente espio. E il
pregàr m’è gioja, e il sognàr è affanno,
e il labbro tace, e discorre il mio cuore.
E l’argento dell’acque son i ceri scialbi
ai quali prega il mio debole sonno; e...
e l’Infinito che ho d’intorno è Iddio.
E sono il servo d’una Musa asceta,
eternamente mesto, e son Poëta! |
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