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Ascoltate, onde del mare fremente,
ciò che canto! e che un giorno qui accadeva,
quando la sera alla Notte volgeva,
e il cielo si dormiva cupamente.
Onde dell’acque più irate, e furente
flutto di questi lidi, il bardo ardeva
e il suo canto di strazio a voi gemeva,
or come io gemo in un sospìr assente.
Canto un idillio, qui, ove mollemente
un Amor nacque, e giòvin decadeva.
Ascolta, Scozia! Il perenne mistero
delle passioni e degli istinti umani,
che adesso vado a cantàr con la cetra.
Canto la Sorte d’un cielo più nero,
e dei sensi melliflui i Mostri arcani
che s’ergono crudeli come pietra,
e canto l’ansie a quest’ombre d’un cero,
i desideri, e le gioie e i sogni; e vani
son quest’ultimi, e all’etra
un cantico rimane or tra le sere,
vane e tremende e mendaci preghiere.
All’ombra delle cime in scialbe nevi,
e al ricordo dei trilli degli ovili,
dove i pastori si lamentano ai corni,
canto l’addio che la Luna ammirava;
e canto un spiro che ivi s’inquietava,
e che poi vanamente nuovi giorni
sperò d’Amore, e come i bei fienili
canto le gemme bionde e i capèi lievi.
Òdimi, oh Scozia! e come un tuo Poëta
gli affanni grido dei figli tuoi, tetri
occhi di pianto che l’onta ferisce.
Canto la Furia che mai si lenisce
dell’umana passione, infranti vetri,
e l’uomo scorre, e più non ha una meta.
Ecco! Ho un’arpa, e di pièta
convulso e spento al tramonto amaranto
tempro alla fine il giurato mio canto.
Al lido oscuro e nella tetra Notte,
per i colli lontani e indefiniti,
tra le betulle e sulle rozze grotte
l’alba Luna luceva. Ma impietriti
a quest’argento e al dormìr delle motte
esanimi due spettri, e impaüriti
si rincorrèvan per le danze indotte
dai strilli ombrosi dei corni avvizziti.
Frattanto delle selve a truci frotte
ululavano i lupi; e gli infiniti
occhi notturni scrutàvan nel Fato,
mentre un pastòr la cornamusa strinse,
donde si ergeva un tuonàr funestato.
Allòr indefinite or l’ombre avvinse
della Luna uno stral, e intemerato
volto di dama apparve, e quel che ‘l cinse
un bruno cavalièr addolorato,
e d’argento lunàr costui si pinse;
e il ciel un pianto attinse
notturno nel mistèr d’addio d’Amore,
Notte perenne d’eterno dolore.
Eran due amanti fuggiti dal covo
d’un funebre castello, dove avverse
fùron le Sorti di loro passione,
e tante pene urlâr, e molte cure;
e così insieme fuggìvan. L’oscure
frasche dei salci al vento una canzone
flebilmente lagnavano, e s’asperse
pur la rugiada sul fiore d’un rovo.
Andavano alle spiagge delle cime,
colà, tra le montagne e il mar immoto,
e si scambiàvan sacri giuramenti.
Erano Tempeste, e tuòn di Sentimenti,
e pur con loro or ciascùn lido scoto
più quieto apparve, e ancora più sublime.
Ora la Luna funerea splendeva,
come larva d’un fior sepolcrale,
laddove una ghirlanda pia gemeva
memore ancor del scorso funerale.
Ma più feroce un’arpa doleva,
forse temprata da un bardo spettrale,
e una strega fatàl si contorceva
dappresso l’infuriàr del maëstrale.
Pur agli innamorati si schiudeva
un freddo e oscuro Fato, un Temporale.
Arrivarono a un lido, e intorno i monti
lampeggiàvano tristi, e gli occhi cesi
dei lampi ne inquietàvan gli orizzonti.
Essi, seguendo i convenìr scozzesi,
avvolti in un abbraccio e presso i fonti,
si giuràvano Amor, e i baci appresi
gareggiàvan sui labbri e sulle fronti,
i sogni a coronàr di molti mesi.
Gl’indici or qui sospesi
nel cupo vento rùppêr la moneta,
e la fanciulla si beäva quieta.
Guai! se le parti di questo denaro
fòssêr nei segni d’un vil tradimento:
sarebbe il Fato e terribile e amaro.
Così dicèvan i padri nel lento
canto dell’arpa e nel frànger del conio,
donde i giovani n’èbber lo spavento.
Spaccare una moneta è un Matrimonio,
e pel fellone non v’è albergo e landa,
né pietà e compassione; ma il Demonio.
Così la tradizione ne comanda,
e le parti d’un conio son altare,
e han valòr oltre Scozia, e oltre l’Irlanda.
Sia maledetto, il traditor, nel mare
corra baldante, e vada a naüfragare!
Gli innamorati conoscèvan questo,
e si divìsêr il denaro infranto,
e abbracciati sen stavano d’accanto,
col cuor felice, e non più ombroso e mesto.
Egli la mano della dama prese,
e le baciò le gemme e i begli anelli,
e i suoi sospir le rapiva e ne intese,
e poi le accarezzava aurei i capelli.
Ma stàvan Fati più duri e men belli,
ché il cavalièr dovea fuggìr, e svelto,
esiliato dai feudi e lì divelto,
sicché l’ora dell’addio or venne presto.
Allòr costui si distaccò e funesto
e tremante s’avvolse in negro manto,
e dalla dama ne partiva affranto,
cuore infelice, e più ancor e ansio e mesto.
Un palafreno tra brume gridava,
e fin quando ‘l poté, costei ‘l seguiva,
con l’occhio in pianto e il labbro che sbraitava
bave d’affanno e di dolor saliva.
Il destriero fuggì, e non si mirava,
e la fanciulla piangeva, e a una riva,
camminando a tentoni si posava,
e l’affanno, il malvagio, l’assaliva.
Così alla Luna costei s’inquietava,
e inquietàndosi e vinta al fin moriva.
Uno scheletro giacque al lido ardito,
e il labbro suo sembrò dicesse: «Addio!»,
come un saluto lungo l’Infinito.
Ma nulla seppe il cavaliere pio,
anzi, credette rivederla, e al rito
delle nozze condurla: «Oh cuore mio!».
E or che io ho narrato e che qui io son smarrito
or forse gemo, or forse spero anch’io.
Ahi, perché Amor, oh Iddio?...
Bianche fanciulle nei lor sogni assorte,
e poi, che viene? Lontananza e Morte! |
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