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Muto i' n'ho 'l cor che qui s'ode 'n dolère,
e un seguitato sogno, e l'aër bieco
ansimando m'assalgon, donde avere
spene fia indarno; e 'n sul labbro 've i' preco
un singulto si tace, e al far di sere
truce ne muore eternamente 'l cieco
desio, e alle nubi che somiglian cere
un sospiro di strazio e a' vespri i’ arreco.
Mesto i' qui son, né m'è dato 'l sapere
qual doglia atroce or mi s'aggiri meco!
Spettri d'Inquieto s'aggirano intorno,
la Luna m'accompagna 'l tenue pianto,
e 'l cor d'ignoto straziarsi m'è adorno.
Fors'è 'l Destin d'un uom che sogna - e tanto! -
e d'un spettro che mai rivedrà 'l giorno,
onde così della Notte i' m'ammanto.
Ma tu, pietosa strige al fior dell'orno,
almeno tu, contempla 'l vago canto
che i' vagolante e affranto
tacendo lagno ché non so che dire,
ràpsodo folle in perenne soffrire.
Silenzio, dunque, 'l murmure più bieco
nelle vene del cor mi vien. Dolère
m'è Legge eterna, 'l Destino che i' preco
poiché più non mi sia, e qui non più avere.
Ma 'l sepolcro ch'ei schiude orrendo e cieco
or tanto mi tormenta qual le sere
cui 'l soffrente lamento in duol i' arreco,
in fin dell'alba alle primiere cere.
Spettro crudele e fatal che sta meco
di cui cagion non posso i' non sapere!
Eppur quest'aër muto è terso in pianto,
e un senso di lagnanza aleggia intorno,
un smarrimento che or mi duole tanto.
Gemito 'l ciglio di lagrime adorno,
inconsapevolezza cui m'ammanto,
ahi quant'è 'l disperar del novo giorno!
Allor in fin quel ch'i' urlo, 'l freddo canto,
sepolto ne divien nel ramo d'orno,
come alla Notte 'l storno
che dormendo si lagna e in vil soffrire,
com'io non so più scrìver, né più dire.
Coteste doglie del cor non vo' i' avere,
e vanamente 'l Fato e 'l Ciel ne preco.
Ma pur feroce divienmi 'l dolère,
più insensato, e immortale, e cupo e bieco.
Della Luna i' tormento l'albe cere
alle quali 'l mio piagner poso e arreco.
Odio 'l suo strale, disprezzo le sere,
l'imbrunir in terror del vento cieco.
E a che mai qui mi giova, a che 'l sapere
di questo muto istante, in cor, ch'è meco?...
Di bave silenziose 'l Tempo i' adorno,
Mostro vivente che spasima tanto,
e l'urlo suo si propaga d'intorno.
Vespro di maggio divorarmi 'l pianto,
e 'l cor mi fere, e 'l recide qual orno,
e tremendo m'irride 'l mesto canto.
Così nello sperar del fresco giorno
di vana spene me medesmo i' ammanto.
Oh Notte, i' son affranto!
Son oltre 'l sonno, 'l sogno e oltre ogni dire.
Il silenzio! E perché?... Eterno soffrire! |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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