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La dolce mi viene membranza
del maggio perduto nel core,
e qui nella sera e in mia stanza
sovviènmi un sognare d’Amore,
sovviene alla mente la riva
adorna di viole e cicale,
la via che percorsi giuliva,
e un sogno m’assale.
Così mi ricordo: i germogli
dell’orzo sorgente nel fango,
del storno e del merlo gli orgogli,
rimembro dassenno e qui piango;
e s’apre alla mente un sembiante,
curato in segreto nell’alma,
nel labbro ‘l suo nome l’amante
ripete con calma.
Andavo sereno in campagna,
chiedevo al Signore una grazia,
pregavo tacente di lagna
coll’alma d’Amore non sazia,
e in me ne sentivo la pace,
la requie perduta e trafitta
che in sogno soltanto si giace
terribile e invitta;
m’ergevo siccòme a un torneo
facea ‘l cavaliere nell’arme,
e accolsi nel vento ‘l trofeo
d’un docile e nobile carme,
accolsi ‘l Destino sfidato,
l’orrendo gridare del duolo,
accolsi orgoglioso ‘l mio Fato
da un frutto del suolo.
Pe’i boschi e i sentieri un pensiero
regnava nel core risorto,
un tremulo crine di nero
nel biondo del cielo e d’un orto,
un crine di donna beäta,
di giovine stella nel giorno,
un viso di seta adorata
di Sole qui adorno.
Sognavo: la sera ventura,
la spene giurata da Iddio,
miravo la quieta Natura
nell’ansia dell’incubo mio.
Sognavo: che stava al mio fianco,
e forse nel core si giacque,
che ‘l labbro un sorriso di bianco
d’orgoglio si tacque.
Sognavo: che disse in singulto
concenti di lieve pietade,
che questo l’Amore mai inulto
ne fora alle allegre contrade,
che ‘l braccio a me porse nel tanto,
nel fresco soffiare del vento,
che stavo non più quivi affranto
di bel Sentimento.
Sentivo la quiete d’intorno,
leggero ‘l singhiozzo del core,
nel pallido guardo del giorno,
meriggio di flebile fiore,
e andavo col cane a Nicorvo
precando del Cielo ‘l volere,
andavo al sentiero di torvo
e ansioso dolère,
e allegro mi stavo in tra’i rivi,
guardando lontane le cime,
tra’i monti innevati e giulivi
nel maggio che venne sublime,
e andai di paëse in paëse,
sfidando la Sorte meschina,
tra’i nembi festoso Albonese,
e un’orba cascina,
e vidi le querce e i carpini,
i bei sanguinelli e gli ontàni,
i boschi de’i pioppi e de’i pini,
e i stormi vaganti lontani;
e ferma sen stava nel petto
la rosa bramata dal sogno,
nel giovin, e docile aspetto
perduto, e vergogno.
Speravo incontrarla a un caffè,
nel borgo che lei frequentava,
speravo ma ‘l Fato dové
gridare furente, e tremava;
e vana la spene divenne,
la Sorte furiosa vinceva,
e ‘l sogno beäto s’astenne,
e allor si gemeva.
Dicevo alle nubi ‘l segreto,
sognavo parlarle d’accanto,
parole mai dette - l’inquieto -
dolore che n’ebbi cotanto,
e tacque per sempre ‘l mio viso.
Si spense l’ardore nel gelo?...
Ahi! Forse perdei ‘l Paradiso,
il canto del Cielo. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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