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Alfin l’arsa campagna in ansie muore,
e ‘l ciel presto s’oscura,
e giacciono ai carpin della radura
le foglie, e un fiore
nel vèspero si gela, e l’aura oscura
nel tristo tenebrore
un freddo vento irrora, e ‘l truce umore
della Natura
la bianca brina stilla, e ‘l cacciatore
dal bosco e dall’altura
la vittima ne porta e in bieca cura,
e in fier dolore;
e tra’i nembi ‘l grigiore
dell’autunno si mostra e i campi inghiotte
tra l’albe brume orrende e l’orba Notte.
Allor la strige canta, e al pioppo nero
che ‘l fogliame ne piagne in duol ferino
infreddolito un lupo or geme altèro,
e al muto pino,
e ‘l salce a un fonte giace, e ignudo e chino
tra’i rami ne ricopre e in reo mistero
un funesto recinto, e un cardellino,
e un cimitero,
e l’orizzonte è un scialbo e smorto cero,
e pallido si tace e un lumicino
da un sepolcro s’irrora, e ‘l spettro fiero
grida; e al Destino
sen va de’i morti - e in fino -
cadaverica e cupa e l’orba Luna
nel nembo ch’è una bara ombrosa e bruna.
Quest’è dunque l’istante or della sera,
e ‘l sacro bronzo geme,
e ‘l vento dell’autunno in posse ‘l teme,
e la preghiera
dalla pieve risòna e l’alta speme
nella divina sfera
all’ara e santa e ligia e pia s’incera,
e a’ salmi insieme
del fedele ‘l desiro or forse avvera,
e una membranza freme
e in pianto e in lagne e in grida e dolce preme
la diurna fiera;
e nella Notte nera
e nel notturno volto e insano e immenso
dalla chiesa s’espande un fior d’incenso.
Frattanto ogni ansia foglia impallidisce,
e ‘l pioppo è falbo e cupo, e ‘l tiglio ha fame,
e l’acero gemendo or s’appassisce
e l’alte fronde tinge in fioco rame,
e quest’ottobre insano già finisce,
e novembre sen viene e ‘l reo fogliame
col pianto de’i defunti ne colpisce,
delle vedove e meste e inquiete dame.
Allora io qui ne gemo, e i campi ammiro,
e l’arsa paglia fresca,
e gli arboscelli ignudi della pesca,
e ne sospiro,
e pe’i boschi m’aggiro,
e ne contemplo la desolazione,
melanconicamente ‘l fosco cielo,
e del morente melo
le fronde prone,
e in un recordo dolce ancor ne giro,
un volto che m’adesca,
la sorridente fronte che donnesca
or m’è martiro,
e nel meschin respiro
questo mio core va in palpitazione,
ed ella fia l’Estate, e un caldo velo,
e m’ispira nel gelo
una canzone.
Ma quest’ottobre oscuro è tanto forte
che dal labbro mi toglie ‘l gaudio ameno,
e come in mar crudele e all’onde assorte
quest’allegria del core or mi vien meno,
e quivi ormai n’affogo, e sento Morte
nel cupo firmamento, un bieco seno;
e l’autunno è veleno,
e nel suo vel ne trovo un Sentimento,
indefinito e arcano, e un turbamento,
e all’appassito fieno,
e a’ smorti tigli e agli orni e a’ campi in pire
ne vò parlar ma ignoro or cosa dire,
e al tramonto mi sveno,
un desio mi serpeggia in mezzo al core,
forse paüra insana, o forse Amore...
E tu... e tu, oh dolce fiore!
Or nell’autunno pasco la tua assenza...
nell’orizzonte un senso or d’impotenza,
e ora m’è ‘l labbro muto,
e quel che dir non riesco, ‘l dica ‘l liuto! |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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