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Eternamente scialbo ‘l ciel si giace,
e l’alba è lenta e torva, e ‘l vespro svelto
di cupe forme veste, e canta un Celto
coll’arpa infausta e cruda la lagnanza
che ‘l cardo, e ‘l vento e i fior invita a danza,
e nel tramonto l’eco ormai si tace.
Così al morir del Sole e al truce aspetto
delle tenebre eterne, e a’ monti e agl’ermi
e a’ inquieti sassi e inermi
e al cippo gretto,
e al villaggio silente e al muto tetto
e con quest’occhi fermi
febbrilmente mi volgo, e a’ cupi germi
dell’aër schietto.
Così al ciel, alla Luna, e al suo cospetto -
bianca larva d’argento e scialbi vermi -
gli ansiosi guardi e infermi
rivolgo; e un detto
dal smorto labbro n’esce, e di tormento
a’ campi insani e amari e rei e mietuti
ferocemente geme, e in turbamento
a’ salci muti;
e alfin la pelle n’ode ‘l fiero vento,
e l’occhio in pianto scorge i fior caduti,
e nell’autunno, o Notte, un vil spavento
dovunque incuti.
Allor nel mite gelo che vien lento
e in su’i pini e i carpin alfin perduti
tenendo in cor - e tanto - un patimento
soffio a’ miei liuti.
Ma amaro m’è in su’i campi ‘l cener cupo,
presso gli arsi covoni, e i secchi rivi,
e m’opprimon le brume, e ‘l negro lupo
e i freddi clivi,
e in su’i sepolcri antichi e su’un dirupo
quest’occhi son di pianto - e ognor - sorgivi;
e vagolando quivi
come un bardo ne canto e molle e orbata
all’autunnale Notte una ballata.
Un giorno in quest’autunno un uom soffrente
dell’Estate sen stava al cimitero,
e in sull’attiguo e tristo monastero
col cieco vischio e ‘l salce e colla ghianda
pietosamente fea gentil ghirlanda,
e coll’erbe gelate e colle mente.
Ne canterò di lui che uccise un fiore,
allorquando intrecciava un pegno insano,
e ‘l posava a una tomba, inquieta mano,
e ‘l pianto gli era amico in mezzo al core.
L’acciaro ne brandì, e ‘l fior ne recise,
e l’ansia linfa andava, e fu vitale,
e di sangue le mani or sempre intrise
e in strazio ne mostrava e al maëstrale,
e al sasso oscuro e mesto e sepolcrale
i petali recisi e al suol posava,
e una nenia feroce al ciel lagnava,
e tristo s’inquietava e in reo dolore.
Così l’ansia ghirlanda a questa fossa
quest’ombra che gemeva a stento pose,
intrecciate tra lor perfin le rose,
e co’ petali estremi ‘l ciel estivo
nell’autunno ei piangeva, e presso un rivo
anche l’aura ne fu - e nel cor! - commossa.
Ho cantato di lui che uccise un fiore,
allorquando intrecciava un pegno insano,
e ‘l posava a una tomba, inquieta mano,
e ‘l pianto gli era amico in mezzo al core;
e soffriva d’Amore,
e l’Estate dormiva in tomba arcana,
avvolta nelle brine, e spenta e vana,
e intorno ed insapore
come ‘l ghigno fremente e bieco d’Unno,
atrocemente v’era ‘l sol autunno,
e nelle selve more
che la Notte copriva e all’orno e al cardo
vêr l’Ignoto riedeva ‘l mesto bardo.
Or che cantai quest’ode io son Poëta
degli autunnal istanti e della sera,
melanconico in core e in terra fiera,
e come un fior ghiacciato io son solingo,
eternamente in duolo, e vo’ ramingo,
e sempre l’alma in petto va e s’inquieta.
Ma pur dolci mi sono queste foglie,
e queste dolci tinte impallidite,
quest’acero ramato e ‘l salce in doglie
e ‘l tiglio mite,
e di riso ‘l granel che al campo toglie
la falce, e queste ripe ormai assopite,
e i cadenti carpin, le querce spoglie
a’ vie smarrite.
Allor tra ‘l gaudio e ‘l sdegno in ciel respiro
l’incantevole labbro in vento molle
del verno che verrà, e lontano ammiro
un cupo colle,
e in quest’aër confuso e qui sospiro,
come ‘l fumo al camin che inquieto or bolle;
e vien la brina folle,
come la Luna in cielo, ‘l bianco a’ campi,
e tu d’argento, oh ramo, e tu n’avvampi! |
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