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Vagando a’ ignoti sogni e al letto or desto
e a quest’altro cristallo - oh vil finestra! -
e incerto in sul dormir, e in sul funesto
che fugge ‘l tempo iroso e via maëstra,
or silenziosamente e al ciel n’appresto
quest’occhio che si piagne, e a una ginestra
ne contemplo cader ansiosa pioggia,
e ai stel fioriti e in sonno, e all’acre roggia,
e taciturno sono, e un spir ascolto,
e forse m’è la mente, o forse ‘l vento,
e al prigioniero e mesto e insano volto
questo sibilo grida, ed è tormento,
e ‘l cielo oscuro veggo, e giace sciolto
e in cor mi sprona svelto un Sentimento,
e lontano ne lagna ‘l tòno cupo,
d’in su’ monti oscurati e in su’ un dirupo,
e la requie che muta stava e prima,
‘ve n’udivo cantar i grilli negri,
qui trista e alla Tempesta si sublima
e in su’i nembi furiosi e fieri e allegri,
e all’orizzonte geme un’ansia cima
di questi calli in lampi, e biechi ed egri
e s’avvicina e tosto questa foga
che tempestosa ‘l ciel qual mar ne voga.
Allor ne sento ‘l gelo e i suoi lamenti,
un sibilo di Furie, e l’aura ormeggia
siccome un legno all’acque in su’i veementi
ruscelli, e ‘l lampo irato ognor lampeggia,
e impazziti mi sono gli Elementi
che un nembo oscuro e osceno ne corteggia,
e al finestrello n’esco, e n’ho i capelli
all’alto mossi e a’ venti e insonni e felli,
e volar vi distinguo ombrose foglie
appena morte e infauste, e vanno al vago,
e all’incognito e all’aure, e pien di doglie
si posano irrequiete a un rivo e a un lago
e al perenne gelar che non si scioglie,
e in quest’errar fremente ne divago,
e al crepuscolo torvo n’ho paüra,
e amara m’è quest’empia e rea Natura,
e ‘l bosco ammiro: ei n’urla, e la sua fronda
ne s’agita sovente, e ancor si scuote,
e in sull’erbe gementi ‘l ciel si gronda,
e ne spezza ‘l fulgor le piante immote,
e si bagna una quercia e n’è iraconda
e più dell’acqua insan che la percuote,
e queste foglie sembran man dannate
degli Inferi e io ne sono ‘l perno e ‘l Vate.
Così a questa finestra io giacio e servo
ne son Poëta atteso a’ tòn rapaci,
e in loro le saëtte e i nembi osservo,
e le fòlgor mi sono e labbri e baci,
e nelle cune scorgo e ‘l tasso e ‘l cervo,
e l’orme al suol di passi assai fugaci,
e un brivido mi passa in sull’ischiena,
e l’aër freddo e odiato al cor mi svena.
Ma dolce m’è e allo sguardo ‘l lampo svelto,
e mi pare una foce a un mar di Notte,
tanto e velocemente a’ ciel divelto
e fatto di possanze e arcane e indotte,
e quando ‘l suo sepolcro ansante ha scelto,
iscoppia a terra e muore e vanno a frotte
l’impronte sue nel vespro, e allor svanisce
e la tenebra irata e rea ‘l supplisce;
e intorno va e sen gìa ‘l tòn fragoroso,
e al cor mi bussa insano, e mi spaventa,
e ne balzo e mi lagno e ‘l tempestoso
istante infuria e crudo e in possa lenta,
e ‘l spirto mi si giace doloroso
e alle grandini fredde or si tormenta,
e ne viene ‘l tifone e ‘l maëstrale,
e l’occhio mio alle piogge più non vale,
e affisso ‘l guardo all’alto, e a’ nembi impuri
timidamente io scruto un po’ di Luna,
e questa è tinta e in parte d’empi e duri
tenebrosi elementi e di sfortuna,
e rosseggia febbrile in sugli oscuri
capei sconvolti e van di Notte bruna,
e par che piovan pure i suoi crateri,
spettrali fosse e vil di cimiteri,
e veggo che si splende e n’è sottile
e un fulgore vicin sedur la vuole,
e ferma sta e fatal al campanile
che annunziando le dieci in cor si duole,
e bionda qual la paglia d’un fienile
da un lampo n’è ghermita a mille gole,
e anche ‘l fascino dolce e pio e lunare
or m’è dolore e strazio e van sognare!
Allor ne svengo e ansioso a questi fulmini,
e ‘l murmure del vento è un rivo inquieto,
e svenuto mi volgo a’ ghiacci e a’ turbini
e debolmente scruto al loro greto,
e sublimi mi son gli irati culmini
a tanto Caös lassi, e l’uliveto,
e queste selve terse, e queste piante,
e questi tòni, pianti d’un infante,
e in crescendo e genial qual l’orchestra
impazza l’Elemento, e irrora un’eco
di Morte e patimenti, e alla finestra
si percuoton le posse e ‘l piover bieco,
e ‘l cero s’assottiglia e alla mia destra
la Tenebra n’impera, un ghigno cieco.
Così e in timor ne vo’, e dormirò e quando
la Tempesta morrà, starò beändo.
Ma sento le selvagge spire e le gonne
di quest’aure impazzite in sulla pelle,
e immoto giacio e affranto e mesto e insonne
e la paüra in petto or non si svelle,
e queste Furie, Erinni... e bieche Donne
mi sono duoli e strazi, e son rubelle
e scrutato mi sento in fin da un Spettro
che infernale ne porta in man lo scettro,
e le piogge che vanno in sopra i tetti
m’emanano un fragor di cupa pietra,
e bussano a’ veroni e fan dispetti
e alle tegole l’acqua ancor penètra,
e sento empìrsi tanto de’ suoi getti
l’immensità dell’eco, e in fino l’etra,
e in cupo istante lagno, e impallidisco
e di tremar non più nel cor finisco.
Allor crudel ne intendo ‘l cielo meco,
e m’inchino supino e n’ho dolore,
e a questo vento odiato e al gelo impreco
e al bosco e inquieto e aprìco che sen muore,
e l’ansia ognor m’avvolge e un sogno reco
all’alma lassa, un verbo: Amore... Amore.
Oh Tempesta! Oh Fulgore! Oh mio Martiro!...
Bei sogni!... Un sepolcrale... un sol sospiro! |
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