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Fredda tu, oh la Tempesta, che t’innalzi
a tante vette e ai valichi, or lusinghi
quel che ‘l soffiar del vento ne sobbalzi!
Strilli e vai e alle vallate emani ringhi,
e l’eco aguzza in te s’ammutolisce,
‘ve ‘l ciel se’ tu che spietata n’arringhi;
e ‘ve ‘l tramonto all’ignoto perisce
folgoreggi impazzita ai rivi e all’ima
felce, e tua Furia aspra più non finisce.
Tant’è a quest’alma la tua possa prima
che più funesta mi desti or quïete,
e non mi par che tu sia orrenda e infìma;
e quel che illumini ancor - vaghe mete -
col lampo è un son che mi placa la sete!
Oh Tempesta che pia soffi in tormenti,
sempre vai a empir di te questa montagna,
e i sensi miei n’imperi e i turbamenti,
e ‘l piagner tuo - di grandini - mi bagna
come nel prato le fresche rugiade
ai fior, e ‘l vento più ardito si lagna.
N’empi di rivi l’alpine contrade,
e mi tuoneggi or d’ansia primavera
dagli erti passi, alle più basse rade.
Ma sibben trista tu sia e ai nembi nera,
tanto piaci all’ardor ch’è in me, e le cime
con questo veggono or l’orba tua cera;
e tu se’ bella, e splendida e sublime,
de’i ciel signora e di queste mie rime!
Dolce è udirti, oh Tempesta, e in sul singulto
del lasso e inquieto vento io vagabondo
e in sotto ‘l volto d’un nugolo occulto,
e in sul cor che mi vibra, l’iracondo
io intendo ‘l fischio dell’arsa saëtta,
e ‘l tuo orizzonte di brume è profondo.
Allor la Furia che al suol si rigetta
del grondar di tue piogge s’avvicina,
e io la contemplo da quest’alta vetta,
e un lampo tuo ha le forme d’una spina,
cui la sua vena lentamente muore -
di sé medesima è pur l’assassina.
Ahi quanto molli mi sono quest’ore,
ove in ciel si lampeggia ‘l tuo furore!
T’odo andar d’uragano all’ime valli
cui l’occhio mio rivolge l’iri aprìche,
e inebri d’acque gl’imi e i tersi calli,
e va la grandine in sopra le spiche
che al maëstrale ammutoliscon prone,
e ti si lagnano in fin le rocce antiche.
Ma ben più che molesta la tenzone
che ai nembi vive m’è cara e sicura,
come m’è quieta l’alma tua canzone,
e ai piedi miei si lagna la Natura,
e sento ‘l ciel che gemente tuoneggia,
e ancor più la tua effigie in ciel s’oscura;
e l’ansia pioggia ansiosa folgoreggia,
e in cor di lei sta un ghiaccio, e mi dileggia.
Così vado errabondo a questa cima
che a te, o Tempesta, si trema perenne,
e d’un sentir mi pasco che sublima,
onde in tra’i lampi, e i tòni e le lor penne
vammi al core un sapor di possa arcana,
che al vento mòve ‘l crine che m’è indenne.
Qui la Natura urlando t’è sovrana,
e son io vostra preda in tante doglie
che più n’aspetto Sorte disumana;
e pur i monti, e i ghiacci amo e le foglie,
e grondanti le nubi ancor n’ammiro,
e ‘l vostro fascino or più mi distoglie.
Un lampo... un tòno... incognito sospiro,
son vento e Intero, con voi un sol respiro!
Oh Tempesta che inondi i fonti alpini
e che ne colmi gli alvei e i rivi freschi,
se’ bella tu che n’aliti in su’i pini,
e in te n’ho i brividi, e i freddi e donneschi
tuoi grembi riempion le vallate d’onde
‘ve annegar ne discerno i cardi e i peschi!
Cupa se’ tu, e le tue ciglia iraconde,
e d’Espèria i tuoi raggi grondan brume,
e a tremar or men sto a luci tue bionde,
e a me ‘l tuo volto piace, e tanto ‘l lume
che a saëttar ne desia agli occhi miei,
e la tua pelle trapunta d’agrume;
e i tuoi ghiacciai pegli orizzonti orei
mi sono un nettare ameno di Dei!
Ma se in ciel la possanza ti si strema,
e dianzi a me non più tonando corri,
come in malìa risona un anatema,
ché quel che giova al mio cor cui discorri
svanisce presto, tu istessa che gridi -
e febbrilmente - de’i monti alle torri.
Allor ne veggo spogli e tersi i lidi
che ‘l tuo furor stancato n’abbandona
come l’augel ramingo da’i suoi nidi;
e orrenda m’è la nube che non tòna,
lei che si smorza - la tua pioggia - e in core
sol di te l’eco oramai mi risòna,
sicché or che son privo del tuo fragore
questa montagna m’è insano dolore! |
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