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Lungo ‘l meriggio inospite
del freddo verno e ombroso,
mentre ‘l crudel crepuscolo
copriva ‘l cielo ansioso,
men passeggiavo incognito
mesto nel tristo cor.
Scorsi i cipressi e l’aride
fronde gemmate a morte,
le felci e i pini immobili,
le rose in sonno assorte;
e tra le brume insolite
vidi una pigna d’ôr.
Solingo e afflitto al portico
erravo in quiete ansante,
sotto le volte timide
fatte d’un’eco urlante;
e ‘l ciel ferale e i nuvoli
la cupa sera offrîr.
Vidi ‘l tramonto e ‘l cerulo
soffio de’i nembi estremi,
il vento udivo e ‘l subito
gelarsi delle spemi;
e l’orizzonte ‘l limite
del Sol mi volle aprir.
Lungo ‘l cammino isterico
delle mie spere afflitte,
volsi lo sguardo fragile
verso le nubi invitte;
e una passante un palpito
di dolce Amor mi diè.
Mi volse ‘l crin nerognolo,
l’occhio acquitrin e mite,
era inebriante e splendida
come un bicchier di vite;
e in sul destin misterico
tese le guance a me.
Scorsi che allegra e docile
mi sorrideva... e ‘l core
sentìa per essa ‘l fulgido
pensier d’un santo Amore;
ed il suo volto angelico
il Paradiso aprì...
ed il mio cruor nevrotico
stava bollendo in vena,
di rose e mirti flebili
l’alma n’andava piena;
e ‘l suo sorriso d’Angiola
dolce un ardor m’offrì.
Fu che de’i nembi ‘l vortice
la bianca neve munse,
scese ‘l candor freddissimo
che tetti e strade punse;
e la fanciulla amabile
il passo suo placò.
Porse la destra intrepida
oltre la volta al gelo,
fissò ‘l sorriso tenero
al nevicante cielo;
ed il mio ciglio in spasimo
poscia costei scrutò.
I nivei fiocchi e i candidi
ghiacci dal nembo affranto
dolci e melliflui scesero
sopra ‘l suo aulente guanto;
ed il suo palmo angelico
di neve allor s’empì.
Disse fatal «Qui nevica!»,
in su’i bei ghiacci tersi,
e i palmi suoi serafici
eran nel ghiaccio immersi;
e la sua voce un fulmine
mi parve e mi ferì.
Su questa man inconsutile
il cor le avrei pur dato,
detto le avrei «Pur stringilo
in sul bel sen dorato!»;
ma i dolci giuri e ‘l talamo
si tramutâr in spir.
Era ‘l suo sguardo nobile
e molle e allegro e casto,
i freddi ghiacci e i nuvoli
eran ripien di fasto;
e la sua voce impavida
il cruor mi seppe aprir.
Ma mesta e ansiosa e tremula
n’andava via lontano,
forse ché mai un gradevole
bacio le porsi in mano,
forse perché lì tacquesi
il labbro ed il mio cor.
Piansi per sempre e al timido
gridai in eterno ciglio,
piango tuttor... rammentomi -
e grido al floreo tiglio -
di quel dicembre orribile
che tolsemi l’Amor. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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