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Me n’arecordo che nui reazzitti,
facemmio a sett’e mmezzu e a surighetta,
co’ le còcce d’arangiu pe’ segnitti,
a tombula freghemmio la vecchietta.
Mo li neputi nostri stannu ritti,
che a mezzanotte drento a ‘na sacchetta,
arivanu li pacchi e li pacchitti,
compiute, cellulare e tavuletta.
"Non vidi che li tembi so’ cambiati?,
lu munnu non è più comme lu teu,
perché oramai semo grobbalizzati".
Casoma stea londana da lu Treu,
e li regali no’ nzo’ mai arivati,
ma era ppiù bbellu lu Natale meu. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«Questo sonetto è scritto in dialetto tiburtino, parlato dagli abitanti di Tivoli (antica Tibur).
L’autore ricorda il Natale della sua gioventù, che mette a confronto con quello dei ragazzi di oggi.
Prima la vita era semplice e povera di mezzi ma, sicuramente più serena.
Adesso, i cosiddetti "nativi digitali" sono tutto computer, cellulari e internet.
Siamo sicuri che sia meglio?» |
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