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Venne il vespro,
e la contrada di lignaggio,
senza freno, l’aspro
intento a si preparar ferveva:
ratta regina si tempra,
dispone, disfà il suo cavaliere,
rombante istiga il paggio,
esulta la prole foriera
asperso il capo, profuma le gote
e son allegri i visi
ora sul calesse assisi.
Con occhi al dì lontano volti miravi
al limitare delle stanze, che pria
di vagheggiar era oggetto.
Gaio e franco l’inceder tuo, pur se
solevi con verecondo braccio
covrire il maturo sembiante, che
a gioco
e ad infante diletto affine,
ora s’infiora a novella voluttà.
Leggera passavi, o vagabonda,
e con gusto nuovo in su genti
ignote posavi il guardo.
Quali speme, quali sogni! Tinsero
il tuo volto, giovinetto e purpureo;
te rinfocolaro incomprese
favelle
occulte d’origo, e di mistero
il riso in ogni dove intriso.
Ed improvviso ardente per etra
salparon navicelle, d’armonia
incalzante ed inclito suono;
cessando ogni parola,
fattor d’amore e nunzie, in alma
per carne
e fremor ch’avvampa avea approdo:
non già di vera festa ma di vita
nuova
il principio. Un soave
biancor riluceva sui
manti grigi, su dorati monili
e capi scolpiti di marmorei
avi
illustri; lanciavansi
usitate dame coi loro duchi,
giacché del proprio sangue
a destin forgiare furon anele;
fanciulle sedeano innocenti,
sebben l’agone di beltà femminea
ostiche l’avea rese.
Tu guardavi: e un dubitar vago
in su lo spirto grave.
Quale cagion di tanto officio?
A che tende sì lungo ed impervio
cammino? Perché vivo?
Fanciullo sogna e cresce, e niente
dimanda. All’imbrunir di primiera
etade già s’affaccia
e, al paterno desio soggetto,
suda sanza trastullo.
Ora in erme pianure d’acqua
si posa, fra romiti pensier, picciol
piscator
che canta: con l’antica lunaria sfera,
con lo cielo sì lontano e spento,
con l’opache lucerne
della città che or dorme e tace,
va’rievocando la persona sua,
inenarrabil corso
ad altrui intelletto.
“Sovvienmi or la giovanil impronta,
vergine
ideale ed angoscioso sguardo,
caldo raggio fra fronde
e lacrimato cader nel buio;
perché allor niun risponde, e sol’odo
il crepitar del mar che batte?
Perché di tanta parte,
ad un viver vano e ottuso,
perdesi, o mia compagna Luna,
di sì estraneo pensier
che la vita uccide?”
Tal teco ragionavi, tenerella,
né il core tremante
del principe il sorriso
indarno ti molceva. Allungavi
l’esile guanto alla mano tesa:
più che l’inverar d’ogni tua via,
di sè e del mondo l’obliar ti vinse.
Chissà se sognavi riposati lidi d’amor | |
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