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avrei voluto insegnarti le mulattiere isolane
dure delle isole, i templi abbaglianti di Apollo
dove lucertole immobili sono colonne
per nascondersi dagli sguardi dei passanti;
tu saresti stata felice di trasformarti in rettili verdi
come gli alberi, arrampicarti sulla schiena
delle statue sature di sole e poter martellare
tutte le certezze col mio braccio di pazzo cantore.
Soli tra i soli,
primavere scordate nel divenire
saremmo stati,
fioriture di tuono tra i salici spaccati,
mandorle pesanti come pianeti
in mezzo alle radure della vita.
Nei bagni di zolfo di Vulcano tutti i fanghi
avrebbero potuto come uccelli degli apocrifi
arginare i sospiri dei defunti.
Lì, tra selvaggi ululati d’amanti
le tue forme di Madonna,
linee tracciate dagli dei sulla sabbia
avrebbero potuto lanciare macigni
sul volto degli scultori sciocchi.
Cesellarti come orafo ebreo vorrei,
come i crocifissi medievali appenderti
alle tende della mente, divelte giorno
dopo giorno come stagioni
che non attendono i cicli,
non aprono e non chiudono quest’Ade
sotterranea del respiro.
Ora mi chiedo, come Otello imbestialito d’amore:
Cosa hanno fatto i dottori dei tuoi capelli sguainati
come spade nel ventre degli ipocriti?
ti vedo sulle gambe di Poseidon
a rilassare i tuoi muscoli tirati come fionde,
nuda come fichi d’india senza frutti,
e la mia di lingua infetta cercare
tra i flutti incommensurabili
la tua pelle di cisterna vuota,
svuotata come Kenosis dovuta
per tutte le piante seccate nella bocca
dei credenti. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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