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Era d’inverno il dì che mi fu luce,
lungi il papà mio a servire il Duce
che portò guerra là, dov’era pace
con avidità d’uccello rapace;
In quella Terra D’Africa Orientale
che per l’italica gente fu fatale.
Era di venerdì l’infausto giorno,
lenta campana dava il mezzogiorno,
poi, il vento sibilava acutamente
mentre sera avanzava lentamente.
Di fulmini brillava il cupo cielo
e tutt’intorno era freddo e gelo.
Era carestia totale, la più profonda
indotta dalla circostanza immonda
per quella guerra sciagurata e dura
che cacciò la gioventù dalle sue mura.
In tal clima squallido e miserando
la vita mia s’incamminò arrancando.
Man mano che m’avanzava io negl’anni
piangere vedea mamma per gli affanni,
nel carezzarmi il volto dolcemente
mi ripeteva, stanca, tristemente:
Nato tu sei in miseria e nell’inferno
chissà se pace avrai, tu, qualche giorno!
Era lo stato che da marmocchio vissi,
precari i giovanili anni pregressi,
e ora che m’affaccio all’età vetusta
anche la vecchiaia m’ appare guasta.
Perché mi si domanda? E’ presto detto:
l’epoca cui viviamo uomo ha corrotto
per cui pur quelli che ti stanno in petto
di stima, pure lor, fanno difetto.
Così gli affetti che mi stanno a fronte
pur’essi, mio sangue, sono indifferenti.
Degli altri se ne faccia un fascio solo:
tutti d’accordo, man lasciato solo.
Morrò con dolore dentro il cuore
per mancanza d’affetto e loro amore. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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