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♦ Michelangelo Cervellera | |
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Io lo guardavo, lui mi guardava. Non so perché era lì, chi ce l'aveva messo.
Inquietante il suo volto, ispiravan pietà quei vestiti sdruciti, quel cappellaccio mal messo.
Occhi di vetro che talvolta sembravan vivi. Ore e ore l'osservavo, senza vedere, senza capire.
Trascorrevan gli anni, lui sempre lì. Forse da quell'orrenda maledizione desiderava guarire.
A poco a poco l'autorità perdeva, il tiranno del campo che passeri e corvi più non temevan.
Lo scrutavano, lo sfidavano crudelmente, appollaiati sulle spalle con zampe maligne stavan.
Un tempo temuto, ora era lì, sporco e triste in compagnia dell'erbaccia che di lui si beffava.
Finiti i tempi di gloria, quando il grano era alto, gli uccelli fuggivan e il contadino l'amava.
Tutto finito, mi guardavi e questo cercavi di trasmettermi, allora non capivo, non vedevo.
Tu di me provavi invidia, e alla fine odio: io mi muovevo e gli uccelli di me avevan terrore.
Ti scacciavo i corvi dalle spalle insozzate e tu mi odiavi, mi avresti ucciso pieno di furore.
Ti parlavo e tu mi invidiavi, ero pulito e tu sporco. Eri rabbioso e solo, io non ti bastavo.
Odiavi te stesso, le tue braccia spagliuzzate e graffiate, odiavi me che triste ti fissavo.
Tu volevi essere me: volevi correre, volevi giocare, volevi mangiare, volevi amare.
Il tuo nasetto di legno si era storto, io lo raddrizzai, ma tu odiavi, non volevi, non potevi amare.
Un giorno ti gridai <>. La sua bocca leggermente s'apriva.
Fuggii e nel campo abbandonato, mai più misi piede. Addio, mio amico e nemico di paglia viva. | |
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