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Una delle tante tragedie di naufragio nel canale di sicilia, che colpiscono gli immigrati clandestini, uomini, donne e bambini spinti dalla speranza di cambiare vita. |
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Brividi. Sudore innaturale,
il virus nel tessuto cellulare,
la febbre di rinascere, t’assale,
al delirio, non resta ch’emigrare.
Il colore d’Italia negl’occhi,
illumina l’anima disperata,
pulsano nella testa i rintocchi,
l’ora di arrischiare è scoccata.
Dall’Africa, dai sultani, scappare,
sotto il sole aspettare il barcone,
senza paura dell’onda del mare,
coprirsi con un semplice maglione.
Donne, uomini accovacciati,
stretti nel silenzioso brusio,
sono spaventati, i disperati,
chetati dal continuo sciabordio.
Al buio, curvi, addentano panini,
alle luci dell’alba, stralunati,
scoprono la vita nei vicini,
respirano, si sentono rinati.
Di notte, restano ammutoliti,
i bisogni cadenzano le ore.
Di giorno, in un sol uomo uniti,
perdono anche l’ultimo pudore.
L'amaro profumo dei marosi
copre i loro sporchi umori,
avvinghiati nei sobbalzi dolorosi,
vivono i loro carnali tepori.
All'improvviso si alza il vento,
s'imbarca la maligna mareggiata,
s'intravede l'approdo di cemento,
è “Lampedusa”, la terra sognata.
No! Perdio! Non si può attraccare!
Il risucchio dei gorghi l’inabissa,
nel caos non riescono a nuotare,
dal molo qualcuno li fissa.
C’erano nell’isola! Quasi! Riuscite!
Si sbracciano per essere aiutate,
bevono a pieni polmoni, ormai sfinite.
Le forze... il cuore... la vita li ha lasciate.
Entrano in un luogo muto, bianco.
“L’ospedale? Ci hanno salvate?”
Avanzano con i compagni, a fianco,
verso le nuove vite insperate. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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