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Tra l’ombre altere del Tartaro oscuro,
tra le betulle di valle tedesca
stava portente per aura sì fresca
bionda Valchiria la Luna a mirar.
Ritta sull’armi d’usbergico seno
tenea nel pugno la lancia suprema,
lama fatale che in sull’anatema
l’alme guerriere raccolse e mieté.
Gemmata chioma dall’elmo coperta
scendeva al collo ch’ornato d’acciaro
stava rapace di fronte all’allerta
dell’eco fiera d’un crudo pugnar.
Ahi pel mantello del cielo sì avaro
ella ferina si mise a gridar.
Schiuse le labbra qual pegno di bacio,
intriso ‘l ciglio di brace lunare
fermo lo sguardo sul nobile urlare
ella rapace la guerra cantò.
Spinta dal vento, la gonna del peplo
tanto placava degli arti la possa;
ma quella donna d’avernica fossa
sempre più fiera dal calle apparì.
A guerre… a pugne di suolo lontano
correva altera col guardo fatale.
Ma l’alto detto del saggio Wodano
non più un certame a questa serbò.
Allor la dama dal core immortale
cheta s’arrese; ma non si placò.
Chiaro di Luna che tempri ‘l suo pianto,
che ‘l spento ciglio ricovri di resti,
ahi che dicesti?... Oh Notte che festi,
quando alla Diva ‘l recordo si diè?...
Spenta Valchiria gemeva funesta
col pianto ascosto nel veglio furore.
Ahimè tant’era ‘l proteso dolore
che quello spirto la furia perdè!...
Tra l’ombre stanche del cielo stellato,
tra le civette di fredda foresta
stava la donna col volto piegato…
stava ‘l recordo del tempo che fu.
Corse tra pugne qual folle tempesta…
colse gli spettri…. Ma adesso non più! |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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