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I.
E venne la bufera... e quindi il nulla...
Fu lampi e tuoni, rombi e fuochi... e tacque...
Scagliò il flagello... fe' ondeggiar la culla...
Si fece grigio il cielo... azzurro s'apre...
Furon torrente... or ruscelletto, l'acque...
Calò il silenzio... belan già le capre...
Non resta che un singulto nella sera:
non pigolar d'augelli in rami 'nvolti...
Ma il pianto del colono che dispera
La sua magion e i modesti suoi raccolti.
II.
Ai campi riedi con la zappa in spalla
Mentre i sorrisi affogano nel fango
E dalle zolle sradichi la calla.
Il sottil stelo, allora dritto e fiero,
Si spezza e pròstasi il bocciolo ad angolo:
Presagio d'un destino ancora nero!
L'aura solleva una piuma: sul capo
Ti si posa leggera. Infuria il vento
E al suol ricade morta. Odor di mapo
Ai pensieri funesti fa concento.
III.
Che guardi? E a che rivolgi i tuoi pensieri?
Quale peso ti grava sulla schiena
Da più sentire gli anni che non ieri?
Vecchio non sei e amica non t'è la morte.
E allora ti consuma quale pena?
Ah, il bacio languido di malasorte...
Chiudi nel palmo il pampano stecchito
E l'acerbo germoglio sotto il piè.
Furor di Apollo fe' piover Cocito.
E al cielo gridi: Perché, Dio? Perché?
IV.
Giunge il Sabato, giorno dell'attesa.
Di Giove, altro non resta che il profumo
Dell'erba madida alla pioggia arresa.
Un cuscino di soffice filato
Alto s'arruffa su nel cielo e fumo
Dal campo sale in pozze maculato.
E' questa quella luce di speranza
Che illumina i tuoi sogni fantasiosi.
Volteggi, gridi e voli: quale danza
Al sole dopo pianti dolorosi. |
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