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Il Corsaro e la nobil Fanciulla ispagnuola

Fiabe
V'era tre secoli addietro un corsaro
che, nel regale nome d'Inghilterra,
solcava il caraibico mare avaro
in cerca di bei bottini e di guerra.

Ei era giovine, nobile, e sapiente.
L'indole sua era sì calma e tranquilla
ch'assai lungi da sé l'ira furente
tenea, e d'empietà ogni cruda favilla.

Capitan d'un mite e quieto equipaggio
l'uniforme della regal marina,
segno di prestigio e di gran coraggio,
vestiva ei con eloquenza sì fina.

Un dì, poscia aver ratto un gran bottino
da un portentoso galeone ispagnuolo,
mirò tra l'oro un dipinto divino
che gli segnò il principio d'un rio duolo.

Infatti il quadro dai vivi colori
mostrava il volto d'una damigella
che, delicata come stel di fiori,
riflettea la luce d'una gran stella.

Misero corsaro!... Se ne innamorò.
Ma era costei la figlia deliziosa
d'Alfonso, governator che s'insediò
nell'ispagnuola Avana maliziosa.

Che mai fare?... Lasciar perdere l'Amor?...
Scordare il ritratto di quel bel viso?...
Uccidere sul nascere quest'ardor?...
Dimenticare quel dolce sorriso?...

Ahi, quai domande cruente e turbinose!...
Come potea il corsaro dar responso?...
Infatti quelle brame sì amorose
si scagliavano contra don Alfonso.

- E se costei fosse già fidanzata-
chiedeva poi il corsaro loquando a sé.
Ma la fiamma d'Amore era impazzata.
A tal punto era d'uopo agir, mostrar fè.

Vestuto con una semplice livrea,
il corsaro prese una pia scialuppa;
e per non far accader ciò che temea
a Cuba sbarcò lungi da ogni truppa.

Aspettò con ansia il far della sera;
poi, mentre il caldo Sole tramontava
salutato dalla lieta habanera,
andò verso il palagio che brillava.

Con provveduta e studiata prudenza,
evitando i rei gendarmi e gli schiavi,
si portò ispirato dalla coscienza
ad un verone che dava alle navi.

Protetto dalle fosche ognor più oscure
e dall'ombra d'un bel nespolo immenso,
fischiò celere tre note sicure
ispirate da un Amore assai intenso.

Allora, poscia un picciolo momento,
apparve sul verone una fanciulla.
Ah, come crebbe il bramato contento
di quel giovine sicuro nel Nulla.

Era dessa!... Lunghi capelli biondi,
azzurri gli occhi, stupende le ciglia,
magrotta la vita, pii seni tondi.
Ah, dell'Immenso immensa maraviglia!...

Vestuta di bianco, come una sposa,
parea inoltre un'angioletta divina
che già illuminava la rossa rosa
colla sua calda luce sopraffina.

Allora il corsaro il fischio ripeté,
balzando prudentemente dal loco
ove ben riparato già si perdè
in una novella vampa di foco.

- Chi mai siete, oh sembianza mascolina?...
Siete un uom pudico, Angiolo del Cielo,
o demòn che di beltà femminina
avete sete nel nome di Belo?...

Suvvia!... Se siete onesto, rispondete-
chiese immantinente la fanciulletta.
- Chi mai io sia, per Iddio, non chiedete-
rispose il corsaro - Pia donzelletta,

vi basti saper che sono sincero.
Poscia aver sfidato l'Oceano in furia,
della notte nel crudo manto nero
già giungo onesto ai piè della tua curia.

Immago dolce de' miei sogni tu sei...
de' sogni più dolci, pudici e casti.
Che per me se' tu Venere tra gli Dei
ascolta... sì, ascolta e poscia ti basti-.

- Oh quant'è dolce l'accento e lusinghier!...
Detti che una dama san conquidere!...
Oh Cielo!... Non mi sembrate menzogner,
e onesto parmi il vostro pio stridere.

Ma Iddio!... Perché celarmi l'identità?...
Se anche foste un temibil masnadiero,
vostri sarebbero il cor, la mia beltà
ché buon sareste ugualmente e mai fiero.

Il nom, vi prego!... Ditemi chi siete-
replicò la dama in estasi ratta.
Allor, sentendo tai verba sì quiete,
il corsaro disse- La Grazia è fatta!...

Al servigio de' regi di Bretagna
son io un corsaro dal cor generoso.
Dell'ispagnuol che nell'oro si lagna
saccheggio il galeone grande e mostruoso.

E l'oro lucente così sottratto
lo divido equamente in parti uguali.
Una parte ai regi, un'altra al riscatto,
un'altra ai mesti colpiti dai mali.

Son poi liberator de' schiavi negri
che prestan servigio sulla mia nave.
Ora essi son liberi, onesti, allegri
e già scordano i campi e le rie cave.

Ma, dolce fanciulla, perché 'l chiedete?...
A tanti uomini, a tanti miei fratelli
ho reciso le vene. Comprendete?...
Ho poi subissato mille drappelli.

Sì, mia compagna fidata è la spada
che impugno quando vò all'arrembaggio.
Ma è giunto il tempo che la lama cada,
giacché più sete non ho di coraggio.

Mi sia adesso Iddio a far da testimonio.
L'Amore è già la mia sete novella...
sì, l'Amor uccisore del Dimonio...
l'Amor che nasce per te, oh damigella-.

Immensamente perduta e estasiata
nelle giuste parole del corsaro,
la fanciulla si sentì sublimata
da un loco che considerava amaro.

Così ella disse- Oh grande eroe di mare,
son io la figlia d'un crudel tiranno
che proibisce ai sudditi di adorare,
giacché l'Amor per lui è un grandioso danno.

Sì monotona in questo bel palagio
è la vita d'una corte meschina
che sguazza nel fango d'ogni breve agio
sotto il Ciglio della Furia divina.

Sempre risòna, ahimè, all'habanera
il ricco fandango de' violoncelli.
Sempre, ahimè, giunta la misera sera
i libertini si fanno rubelli.

E, cruda e ria sorte, deggio sposare
di Madrid un baron che non mi lice.
Sposar chi non voglio né bramo amare!...
Ma è mio padre che severo me'l dice.

Un galeone partì ieri per l'Ispagna;
e l'equipaggio suo un mio pio ritratto
a quel vegliardo che per me si lagna
dovrà subito consegnare intatto-.

- Quel dipinto l'Europa mai mirerà!...
Incendiata, saccheggiata, distrutta
quella nave nel Veglio Mondo mai andrà.
La vidi naufragar orrida e brutta.

E il ritratto giunse nelle mie mani
che l'ascosero qua, nel dolce core.
Esso parla d'un desio, d'un domani...
d'un futuro d'immenso e caldo Amore-

sclamò il corsaro all'amena donzella,
la quale sorpresa e felicitata
dinnanzi ad una luminosa stella
s'alzò sempre più allegra e sublimata.

Ella disse- Oh prode, di te mi fido.
Fuggiamo... Rapiscimi... Portami altrove...
Portami al tuo covo, al sicuro nido.
E' Amor che parla... E' Amore che ci mòve-.

Dette queste verba ella si ritirò
dal bel verone marmoreo e stupendo
dal quale fino a quel momento parlò.
Che mai accadeva?... Oh sospiro tremendo.

Tra mille sospetti e il crudo spavento
il corsaro pensava l'illusione,
fonte di crudele e folle tormento...
fonte di sì malvagia delusione.

Ma ad un tratto gli parve la donzella
che, correndo assai, andava ad abbracciarlo.
Oh, stridente e maravigliosa stella,
pudicamente volle anche baciarlo.

Senza proferir detti, senza tregua
fuggir avvinti verso il dolce lido.
Quando altrove la tempesta dilegua
spesso diretta vuol colpire il nido.

Infatti i due giovini fur mirati
dal malvagio e folle governatore
che immantinente li volle ben spiati
da un drappello di gendarmi in furore.

Ben ascosti, senza alcuna lanterna,
questi militi seguir i fuggenti.
Vider della barca la rotta esterna
sulle caraibiche acque sì frementi.

Allora, dinnanzi al governatore,
prepararon la tremenda escursione
che tanto uccider volea quell'Amore,
e ogni sua casta e pudica effusione.

Frattanto i giovini giunsero al covo;
ed ivi si riposar sur d'un letto
immemori del crudele ritrovo
ch'avrebbe presto ucciso il lor diletto.

Così all'alba fur destati da un tòno
veniente dal sembiante d'un cannone.
Era il demoniaco e crudele sono
ch'annunziava la fin della passione.

Infatti, attorno al covo, tre galeoni
stavano già pronti a cannoneggiare.
Inemici dell'umane passioni
ora un Amore volean annientare.

Il pio corsaro e la sua damigella
ordinar all'equipaggio stordito
di correre alla lor nave già fella
e d'issar il vessillo del bandito.

Gli Ispagnuoli desiavano la pugna.
Perché deluder e cader senza guerra?...
Perché non affilar la guerriera ugna
e cader morti sulla nera terra?...

- Amore in vita, Amore anche in morte-
sclamò il corsaro alla sua fidanzata.
E ella, pur conoscendo la ria sorte,
ripetè la frase assai sublimata.

Al fine i due giovini andar sereni
verso il proprio galeone portentoso.
Era la fin de' lor ardor terreni...
del lor mortale Amore turbinoso.

La pugna fu istigata. Essa iscoppiò.
Abbracciati sul ponte già infocato,
nel cor d'un inferno che si scatenò,
i due amanti il Cielo fecer laudato.

Poscia aspettarono la cruda morte.
Un'esplosione una scheggia scagliò via;
e essa colpì per colpa della sorte
il petto affannoso della dama pia.

Cadendo tra le braccia dell'amato
ella sclamò- Mi ami!... Per questo Amore,
oh giovine, il Cielo t'ha Perdonato;
e Salvato ti porta al suo Madore-.

Appena spirò la dama sì giusta,
mentre la nave già colava a picco,
una luce avvolse la coppia augusta
d'una pia tinta d'oro vivo e ricco.

Vedendo tal lume dal proprio ponte,
don Alfonso ne rimase accecato.
Dolente si fece anche la sua fronte,
e il suo corpo si rese addolorato.

Barcollando e brancolando ora qua or là,
cadde impazzito nel mare profondo.
Immerso nel duolo e nella cecità
annegato morì, e salutò il mondo.

Questa fu la sua morte... morte infame
ponderata dalla divina Possa
che, nel lieto cor d'un vinto certame,
gli volle aprir la terrificante fossa.

Don Alfonso era un tiranno crudele.
Dedito al lusso, all'inganno e alla guerra
a tutti i sudditi diede del fiele,
e tutti volle prostrati nella terra.

Niuno era di lui più grande e possente...
nemmanco il rege del suo Paese sì rio.
Misero, povero, stolto demente:
fatalmente si dimenticò d'Iddio.
Poesia in esclusiva
Massimiliano Zaino 16/12/2009 18:51| 2056

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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