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PSICOMATISMI (tempus & aliud a un'ipostasi)

Impressioni
PSICOMATISMI (tempus & aliud a un'ipostasi)E basta, shut up, ça suffit: e dai, per ora che ti ridici,
ch'è come se strapparsene di nuovo doppiamente
e non risulta dimensione esatta:
ed io? e allora?
sconverge ora cercarti che non torna
– né rime né brame né lume:
ci sei fra le trame stramate, perché sol mi ricordi
che solo ricordo e non sono più qui
per stare ancor lì, quant'ore sciupate: non sei.
E m'impiglio stentando; rivederci ci provo
a lume di viso agognato, figura
che oh sì non so come dire mi strugge
banale romantico:
surplus.
Che l'anima perfino vi pretendo, ma tant'è.
Non essere allora può essere meglio pur anche scontato,
affogare nel gelo tacendo e rimemorando. Pazienza.

E sì, pazienza ci vuole.
E di stucco.
Che pur lo sapevo, pensarci, che non può
se non che svanire, è il cliché:
ne resta sbiadito sedimento però,
di sentimento e scontento, già ma lasciamo andare,
magari come in vasca montaliana –
infatti che sai dirmi di nuovo? manco un cenno,
o un grumo di semantica o ermeneutica, un appiglio...
che ti facesse almeno un po' semiotica di vita,
metafora, che so ... –
e allora il tacere piuttosto:
d'arguzia indurirsi ad accedere a un mancato battesimo
cercandovi lo stampo del tuo nome, il fil d'una frase,
quella da dirti, sì, che sia al tuo nome il tuo nome, proprio quella:
già, è una parola: e certo soltanto una parola sarebbe salvatrice:
come noto.
E allora, sì, meglio, quel vuoto entro cui lavorare,
in negativo e sviluppo.
Costanza discorde del plasmare l'abuso del previsto
– e come a un diario lo dico, vergogna..., ...ma ancora! –
per redimer l'intuizione
– primaria –
che ti salvi, e moi même, e sia pur presunzione, m'en fiche.
Che ti tragga dal brago, e anche me, della replica ennesima,
dal tic che ti perde e mi sperde e c'incomunica,
scomunica il da dirsi nel ridirsi.
Realizzare l'adynaton sarebbe, così,
e dunque soltanto scomputare – temendolo, ma certo ex post –
il comodo cullarsi nel non dirsi
vagheggiando di che star sulla soglia che divide;
come e però che l'ho già detto innanzi.
Infatti.

Infatti c'è tempo.
...il tempo? E certo ch'è il tempo: e va via come ovvio,
e sto qui come eterno sulle rughe che scavo
a me stesso perverso pur senza vederle,
sapendole piuttosto, sapendo che le oblitero, barroso,
se scorgo il riflesso che m'agita il viso.
E tu? Sì, volerti: tant'ovvio come il tempo
medesimo, che sei, sì tu, il tempo che mi segue:
e non m'insegue (il tempo fugge e un'ora non s'arresta, ben è vero:
ma no, era la vita: un'altra cosa, non il tempo)
e di quel che vien dietro a gran giornate, pertanto che ne so?
d'altronde me ne frego, e seddiovuole non sei tu,
perché tu sei davanti a me che mi precedi infatti,
se ti guardo: di fronte a me ti vedo che mi segui,
sì: che con me io ti conduco mia ventura
e simmetrica compagna d'un passato inesperito, ancora,
che il tempo si ripiega puntuale, rovesciandosi
nell'abisso azzardato del tuo sguardo,
mentre l'anima in te si finge vergine
perenne, sospesa al tenue filo d'incompiuta
tua parola che possa io colmare, à jamais,
con la sua eco, persistita:
perché nel tuo fuggire io riscatti, alle tue spalle,
l'ombra tua che si sfuma indefinita
ed in restituzione me la cucia a te;
paradosso eleatico rendendo
quel celere pallore innominabile che fa temer gli sciocchi
– io tartaruga tua: di te, che col rapido indugio del tuo passo,
il tempo mi divori e atteso doni.
Sì, ma star fermo di- a- cronico in tal immoto andare –
altrimenti è scontato, e d'antan: letteratura – che giova?
neppur te ne accorgi, mon âme: che pur se non fuggi, t'eludi:
farti sapere? Ma osta l'asimmetria d'orrido interstiziale
(il tempo appunto, ancora, o meglio la stagione)
che m'occulta: a te, e resta impercepito tutto questo,
mentre dovrei giocarlo appercezione,
esegesi, esercizio al travaglio che mi/ti (in) formi,
dire 'bene così, anzi meglio!', lasciandoti al tuo gioco, libertà,
ermeneia imprevista.
Per schivare il posticipo di ciò che vi precede
noioso e prevedibile lagnarsi. Solo così avrai un nome.
Per scaricar la vasca dalle some, allora,
d'esausto Novecento (dell'ottocento figlio).

D'un tale Novecento a obliterarsi:
di ciò ti faccio carico, mon âme, ongle de mon désir,
mia désirée incarnita.
Lo so che chiedo troppo e son narciso;
ma come allor non esserlo? e allora vivi tu
e dimmi, e gioca la padrona che saresti se sapessi.
E tienimi in iscacco la parola, confondi il mio sapere,
turba la dignità della mia mente, grida che non capisco
niente: io mi ribellerò, ma tu saresti. Ed io con te.
Ma mica per l'angoscia esistenziale, o per quant'altro,
giusto per la grammatica lo dico,
buttandola un po' lì sul cognitivo, per provare a capire
né essere né tempo, o sainzuntod:
che frottole: tu fammi sol sapere quel che voglio:
che voglio solo esserci con te, dasain della mia vita.
Ma tu però, suscita il meccanismo testuale,
mettimelo di traverso fra i coglioni, fra i sentieri interrotti,
sì fra quei cippi sulla via dell'abisso;
e tienila socchiusa infine, per piacere, l'apertura dell'ente
non farci entrare l'aria da demente, solo il niente,
se no potrei pensar che son sfigato:
fattene un poco tu brava portiera,
e prova a conciliare questi estremi,
basta congiungerli col filo che saresti
se solo ti sfiorasse un nome che t'adorni. Dico ancora.
Dimmelo, che sono tutto in un bruscolo di testo,
di quello che ti scrivo, se leggessi. Dimmelo
che se la falce miete non m'importa, tanto mente,
e il tempo a me mi resta tutto quanto intero
coagulo per te del mio pensiero da donarti
filtrando nel setaccio fitto fitto
dei moduli mentali pervicaci
il succo 'aideggheriano circostante
circonciso per l'essere che fu:
che adesso, fra gli schemi e i concetti saltellando,
si prova, con plausibile sintassi,
a far metafora di te, se ci riesco: oppure falla tu,
che è meglio: te ne scongiuro, anima mia, bijou:
fallo per me.

Farlo da me è sforzo sovrumano, e sfida tuttavia.
Che mi dà un'occasione,
ma se lo fossi tu, io dico, sì proprio tu, la metafora che cerco,
e insomma la incarnassi, lo volessi..., la incarnissi ...
Però potresti dire, ed anche: ma perché? perché non me?
perché non io soltanto, quel che sono?
e lascia stare, è lungo e ci hai ragione,
infine, ... ma però credo che proprio, che l'estasi sia questa:
esperirla una metafora in esistere, non dirla,
né crearla, o ascoltarla:
under my skin averla invece: e avere te, che è meglio d'un lenzuolo
che svergogna le nostre nudità da garçonnière (s) coprendole.
Ma ti rifiuti che non sai giocare: e sì, bisogna crescere e saperlo;
oppure averlo in dono che è ancor più.
Dimmi; cioè, che sai? Mica lo sai. Pretendo tuttavia.
E non avendo, mi limito in trovate fanfarone,
magari pur sublimi, questo sì, talvolta almeno.
Per l'effigie di ciò che troverei se fossi l'essere,
tu, minuscolo, in spiccioli finanche:
ma l'essere che sei, quello che dico,
che me lo porto impresso inattingibile, e ce l'hai.
Sì, dentro di me. Soltanto.

Soltanto che non fa, manca qualcosa:
la fiction dice l'attimo. Ma no, non questo.
E manco il feeling, no. No, che non è questione.
Va un po' a cercare, tu: credo sia conoscenza,
o meglio l'intuizione della casella vuota da riempire.
Quella mancante in me/te, come in amore,
appunto. Tu fatti quell'effigie immaginata.
Baràttati con essa, se sai dirti: interpreta, traduci.
E t'amerò soltanto in quel baratto
l'immagine lasciandola al voyeur.
Denudati dell'abito consunto:
circonda l'ineffabile lacuna
col porti qui, davanti a me, sul viso
la maschera sublime con cui potrai giocare a far l'attrice
che di sua verità va travestita; ti prego
che l'essere tu renda in un momento
quella finzione là dietro siepe
che il guardo schiude all'ultimo orizzonte.
Baràttami, mio amor, col tuo sorriso
e che mi perda in un sogno di viso,
segno da te indiviso, mia ragione:
parola per parola fammi te,
tu, nome dell'autrice, proprio lei, la svergognata,
sublime ardire del corpo dello spirito, agognata.
Che l'essere non sta nella parola (o nel linguaggio)
ma sulla soglia angusta del suo farsi
corporale,
come fiamma d'avvio pentecostale
che ci marchia la carne fino al cuore sbugiardati.
E parlerò la lingua sconosciuta a me, quella tua propria,
dentro cui non stai,
che né la langue (né la parole) la volle,
e te la insegnerò, tu, carne del mio spirito mancante,
tu, spudorata, tu, femmina folle,
perché sia l'esser (tuo) quello che sei:
tu, dell'inutil vita unico fiore.
Tu, che non dici amor che non lo sai.
Ed io neppure.
Presnaghe 09/11/2009 18:29 2| 1316

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.



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Commenti sulla poesia Commenti di altri autori:

«perfetto ricamo di parole, sensazioni e suoni a disegnare un arazzo di emozioni sublime... davvero incredibile...»
Elfo89 (13/11/2009) Modifica questo commento

«Un estuario lessicale eruditissimo che attrae il lettore come una calamita. Struttura finemente elaborata e stile peculiarissimo. Di gran pregio!»
Carla M Casula (16/11/2009) Modifica questo commento

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