Era piena estate e verso il calare del sole rosso, il vicolo si animava di rumori e voci di gente che si sedeva fuori dai bassi per combattere la calura estiva.
Si raccontavano di tutto, in modo particolare le donne, che sedute a semicerchio si confidavano su come avevano masticata la giornata, che piano e lentamente svolgeva al termine ed apriva le finestre alla notte che incombeva. Notte che veniva illuminata dalle luci intermittenti delle stelle, che gioivano del loro apparire sulla scena del mondo.
Donna Cecilia era la catalizzatrice del gruppo, raccontava strane storie, storie che facevano ridere tutti o quasi, regalando sorrisi agli occhi stanchi di chi l’ascoltava. Poi c'era Donna Rafilina, che quando rideva si faceva la pipì addosso, infatti, tutti , compresi i passanti d’occasione raccontavano divertenti storielle spinte, queste ultime raccontate per ottenere che il fiume di urina dentro al suo corpo, facesse strada affluendo poi nella valle bassa del corpo per essere espulso poi, senza che Lei se ne accorgesse. Raccontavano di tutto per farla ridere, ricordo tutt’ora le risate, e in particolare quelle di Donna Nannina " ‘A Matrona," femmina che con un' acuto di voce marcava ampiamente se stessa. La sua voce si avvertire lontano un miglio, l'acuto della sua voce faceva tanto rumore che anche il vicolo sobbalzava ridendo e poi si assestava nuovamente su se stesso con un tremolio che sembrava un terremoto.
Molte volte capitava che anche la gente che passava per caso nel vicolo, si soffermava e diventava membro della grossa tribù. Le donne avevano un ruolo centrale nell'armonia del vicolo, ruolo che non avevano i maschi adulti, infatti; vagamente ricordo storielle raccontate da maschi i quali si vedevano di rado, erano sempre arrabbiati, chissà, forse per il troppo lavoro , oppure per i troppi problemi che incombevano sulle loro spalle quasi curvate.
Noi ragazzi invece, ci inventavamo giochi per non annoiarci, giocavamo a buttarci acqua addosso dopo averla tenuta in bocca, a nasconderci e a fare prove di forza confrontandoci con la lotta greco-romana, "quanti di loro ne ho messi con le spalle a terra". Ma il gioco che piaceva tanto a tutti noi era quando Marinella ci metteva in fila indiana e ci insegnava come baciare. Marinella era una ragazzina di tredici anni, diciamo una “scugnizza” perfetta, cresciuta nel vicolo a suon di botte che la madre "donna Filomena, chiamata la Spagnola per la sua bellezza”, quotidianamente le dava, perché non voleva andare a scuola, era una fannullona, il suo lavoro era oziare. Le piaceva solo imitare le donne belle del quartiere, come Donna Lucia Borghesi, la bella del quartiere e del vicolo. Era gracile come un pollo ricordo, aveva le gambe snelle come gli stuzzicadenti e qualcuno diceva di Lei che era una strega, ed era meglio starle lontano. Ricordo che ci metteva in fila indiana a gruppi di tre e ci insegnava a baciare. Eravamo tutti ragazzini timidi e impacciati, qualcuno arrossiva, qualcun'altro tremava. E quando baciavamo male, non rispettando i suoi gusti, lei ci sgridava, diceva: "guagliù siete femminucce, siete femminucce mal fatte", e noi tutti intimiditi ancor di più ridevamo per nascondere la grave offesa. Il più timido di tutti ero io, non parlavo mai e quando Marinella mi chiamava per insegnarmi a baciare le gambe mi tremavano, nel mio corpo avveniva un terremoto, non mi piaceva baciare Marinella, ma temevo che gli altri si burlassero di me e così mi sacrificavo, quasi vomitavo per la lingua di lei nella mia bocca e subito dopo sparivo per andare a lavarmela con il sapone di piazza, quello che si usava e si usa tutt’ora per fare il bucato, non c'era altro sapone purtroppo in casa. Dopo la lingua mi bruciava tanto che la sera non potevo mangiare, mia madre diceva che dovevo prendere qualche lassativo, in poche parole purgarmi.
Gli altri invece se la cavavano bene, dopo il bacio si sentivano come giovanotti cresciuti, si davano un’aria da adulti tutti d’un pezzo. Pezzo di che non so!
Una sera ricordo che la madre di Marinella ci colse sul fatto, cominciò a strillare, strillo talmente forte che anche il vicolo ebbe paura e si strinse ancora di più.
Nel frattempo crescevamo senza nulla chiederci della storia del mondo e delle condizioni della vita del tempo.
Solo quando Don Peppino, l'anziano del vicolo cominciò a raccontarci delle traversie della vita, cominciammo ad aprire gli occhi. Don Peppino ci raccontava della guerra, della fame, della miseria che regnava tempo indietro, dei tedeschi cattivi e dei campi di concentramento e con aneddoti, ci spiegava le tante cose della vita e delle sofferenze degli uomini. Avevo tanti amici allora e ci chiamavamo tutti per soprannome. Ricordo che mi chiamavano “'o biondo”, c’erano tanti soprannomi buffi, tra questi quelli dei miei compagni: "scigntella, core 'e paglia, 'o russo, palla e riso, 'o viking, caramella, panzarotto, etc, etc”. Divertenti no? Non ci chiamavamo per nome di battessimo, ma con questi soprannomi che la voce del vicolo ci dava, voce o anima di qualcosa che ci sfuggiva, forse l'anima della tribù indiana che eravamo, chissà! Eravamo ragazzini svelti di un vicolo dissolato, senza sole, solo ad Agosto pieno si vedeva “ ‘a palla rossa”, come lo chiamavamo noi.
A tredici anni feci la prima comunione, impallidì quando il prete mi pose l'ostia sulla lingua, quasi svenivo ricordo. A tredici anni e mezzo presi la mia prima cotta. M’innamorai di una ragazzina di nome Gabriella, ricordo che all'epoca tartagliavo, non mi venivano le parole, troppa energia mettevo per esprimerle e così le parole scappavano, quando ciò avveniva tremavo nell'anima.
Dopo mesi di occhiate e di sogni fantastici, mi decisi di rivelarLE il segreto del mio amore. Solo che accadde l'inverosimile. Che vergogna mi misi all'epoca!
La fermai per strada un pomeriggio di luglio, le dissi che le dovevo parlare, e così avvenne, ma mentre le dicevo: "Ascolta Gabriella, ti vuoi fidanzare con me?" Accadde l'irreparabile, le mie gambe si misero a correre senza fermarsi, senza il mio via, lasciando sul posto Gabriella che si meravigliò della mia fuga, mi avrà preso per scemo. Non ebbi più il coraggio di incrociare i suoi occhi. Stetti lontano dalle cotte e dalle signorinelle per parecchio tempo. Lasciai la parrocchia dove facevo il chierichetto tra il fumo d'incenso e l'altare maggiore, lasciai tutto per non incontrarla, e a nulla valsero le prediche di Don Luigi nel rincuorarmi e nel cercare di convincermi a tornare, solo al pensiero di incontrare lei tremavo, tremavo per la figuraccia fatta.
Ero magrissimo quasi un grissino, senza radiografia si vedevano le costole, mangiavo poco ed ero sempre stanco. Ai cibi cotti e saporosi come pasta e fagioli, pasta e ceci e legumi vari, preferivo panino con cioccolata o qualche “crocchè”, comprate nella friggitoria di Donna Amelia, quando avevo i soldi per farlo, cosa rara.
Ero tenero come un agnellino, con due occhi che parlavano al posto della bocca, non articolavo bene le parole e sviluppai per equilibrio naturale: il dialogo oculare. Dialogo che tutt'oggi uso quotidianamente, anche perché a volte penso che le parole siano inutili quando si è in sintonia con se stessi e con gli altri. Forse questo è un Carisma chi lo sa o forse un dono di natura, ma certamente è qualcosa che mi piace tutt'ora e mi permette di comunicare con gli altri in modo diretto e senza parlare. Mi piacciono i miei occhi quando in modo particolare parlano d'amore.
Quando ciò avviene si illuminano e mentre comunicano, con l'energia profonda di un pezzo di universo sconosciuto, accendono l'attimo che fugge, l'attimo che impaurito dalla bellezza dello sguardo dei miei occhi scappa. Va lontano, vola via, esala dove tutti i tempi passati ricaricano nuovi tempi futuri, come una specie di staffetta dove il tempo percorso finito dà inizio a un nuovo tempo futuro da percorrere. Così, la staffetta arriverà al finito tempo del mai più, tempo dove tutte le luci si spegneranno lasciando increduli noi stessi e tutti gli altri, che continueranno ad amarci nel ricordo della corsa fatta per arrivare alla meta.