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Luca

Sociale e Cronaca

1


C’era attesa e trepidazione la sera quando aspettavano il ritorno del padre dal lavoro; riuniti intorno al tavolo Luca con i fratelli e le sorelle, la madre, impazienti finalmente di mangiare qualcosa: l’unico pasto della giornata. Era una situazione misera. I suoi genitori erano poveri e la precarietà della loro vita era evidente. Suo padre di tanto in tanto sospirava, avrebbe desiderato avere una casa più comoda visto che dove abitavano era poco più di una baracca, qualche soldo in più per la numerosa famiglia, ma sembrava che l’orizzonte della sua vita non dispiegasse altre possibilità.

Luca crebbe la sua fanciullezza fra stenti e privazioni, accomunati dalle medesime condizioni si univa agli stormi dei ragazzi che organizzandosi in gruppi cenciosi e sporchi vagavano innocenti nella squallida periferia. Frugando intorno cercavano oggetti tra i più svariati che potessero servire per loro o la famiglia: un tardo pomeriggio, sua madre, lo vide rientrare tutto ansimante, le porse una scatola contenente una sveglia. Tra i barlumi delle lampade ad olio, la sera, con suo padre, dopo svariati tentativi riuscirono ad avviarne il meccanismo, e quando il ticchettio si percepì nell’aria si sentirono felici.

Un’altra volta ritornò con dei gessetti neri di diversa grandezza e dei pezzetti di marmo, sua madre li confinò in un angolo. In breve Luca riuscì a riempirlo di tanti oggetti stravaganti che sua madre gli vietò di portarne altri. Come l’acqua del fiume trascorre il tempo e dopo la scuola dell’obbligo fu costretto a lavorare, in campagna, dove suo padre aveva consumato la vita ci stette pochi mesi; poi fece, prima l’apprendista carpentiere e dopo quello in una falegnameria. L’adolescenza lo aveva cambiato dentro e fuori, soffiandogli nel cuore le prime fiamme delle passioni e crescendolo robusto e con una curiosità penetrante. La maggiore attenzione tuttavia cercò di indirizzarla verso il lavoro, era questo che gli dava sostentamento; ma i pregiudizi difficilmente scompaiono ed è difficile uscire dal crudo destino che la nascita lo aveva condannato. L’ambiente ne aggravava gli effetti e non poteva contare quasi su nessuno; ma suo padre ebbe modo di conoscere una persona che a sua volta gli indicò un gioielliere il quale aveva bisogno di un aiutante. C’era in Luca un desiderio insopprimibile di migliorarsi ed accettò quindi subito.

Il negozio era situato all’estremo opposto della sua abitazione tanto che ci vollero diverse ore prima di arrivare, l’elegante quartiere lo meravigliò abituato a vivere nelle stamberghe comunque entrò dentro. Matteo era un uomo energico e sanguigno, il fare veloce e il piglio del comando gli denotavano un’aria alquanto austera, tutto il suo negozio emanava opulenza e luce, oggetti preziosi, esotici e ricercati, già avanzato negli anni incuteva rispetto e timore che i piccoli occhi mobilissimi evidenziavano maggiormente, guardò attentamente il ragazzo che gli sembrò affidabile.

Dopo gli espose il tipo di lavoro che doveva svolgere, accudire i vari morsetti, bilancine, seghetti, pulirli periodicamente e trattenere i clienti quando lui andava a prendere i preziose rari dal retronegozio e portare, quando lo richiedevano, la merce a casa loro; Luca promise zelo e precisione nel fare questo lavoro, onestà e impegno gli intimò Matteo, il quale per rendere la vita più comoda al suo aiutante lo sistemò, al terzo piano, nello stesso palazzo che ne aveva di piani sette, in un piccolo locale confortevole. Tutto andava per il meglio, Luca si ricordava bene del suo passato per non confrontarlo con il presente, le differenze qualitative nel vivere quotidiano gli arrecarono cambiamenti che prima non avrebbe ritenuto neanche pensabile; man mano che si adattava al nuovo tipo di vita si rendeva conto di poter realizzare quel benessere che desiderava.

I primi tempi furono duri, ma la sua pazienza e la sua abnegazione lo consolava, anche perché Matteo saggiava di tanto in tanto la sua buonafede, la dedizione; dopo un po’ di tempo si convinse della correttezza di Luca e gli riversò tutta la sua fiducia.

Lo iniziò all’arte orafa, a manipolare il crogiuolo per fondere i vari metalli, a incastonare le pietre preziose negli anelli e nei collier. Lo introdusse nel ricco ambiente borghese che lui frequentava e a qualche festa. Una sera lo invitò a casa, per cena, lo presentò a Marta e insieme cenarono, poi gli raccontò della sua vita, della moglie che era morta otto anni fa, dei suoi tre figli, due maschi e una femmina, i primi erano scomparsi a causa di una grave malattia lasciandolo profondamente costernato, e che sopravviveva, accennando

a Marta, quella sua ormai unica figlia: consolazione affettiva della sua imminente terza età.

A tante disgrazie lui reagiva comunque dandosi coraggio, lavorando e accumulando un patrimonio già di per sé cospicuo.

Come la terra che gira così passò il tempo, dieci operosi e proficui anni, poi le pieghe degli avvenimenti precipitarono incalzando. Negli ultimi periodi Matteo aveva abusato della sua età in modo tale che gli effetti travasavano sul corpo pur abbastanza resistente, pranzi massicci e speziati, vino a fiumi e incontri frequenti con donne di mestiere, nulli furono i tentativi di Marta di far distrarre il padre con le mostre d’arte ,il teatro o altro: non c’era niente da fare. Fu al termine dell’ennesima giornata di gozzoviglia, mentre stavano accompagnandolo a casa completamente ubriaco, a metà strada, improvvisamente emise un rantolo, sbiancando contrasse il corpo finchè dopo un attimo si accasciò privo di vita sul sedile dell’auto.

Avvertirono Marta, ella fece chiamare Luca che intuendo l’accaduto chiuse il negozio e si precipitò casa. Già da tempo si erano familiarizzati a questo evento, evidentemente inevitabile avevano preparato l’anima e il corpo a questa fatalità che li aveva visti loro malgrado impotenti nell’impedirla.

I funerali si svolsero sommessamente e il comportamento composito di Marta lasciava intravedere l’accettazione dell’evento.

Con la morte del padre è lei unica e ricchissima erede, inoltre, per volontà paterna, doveva mostrarsi generosa nella eventualità che Luca lasciasse di sua volontà il lavoro, e le aveva segnalato infine un amico che tutelasse e amministrasse il patrimonio avuto. Luca si trovò di fronte a una doppia possibilità: continuare a lavorare lì o cercare di mettersi in proprio, la seconda soluzione era irta di incognite e non aveva abbastanza soldi per questo scopo; decise la volontà di continuare a lavorare nel negozio, un pomeriggio, andando a trovare Marta, che lo ricevette con cortesia. Fra i due c’era quell’affetto proprio dell’amico di famiglia e fino a quel momento privo di fraintendimenti e sottintesi particolari. Dopo Marta, per vincere la solitudine, volle che una sua lontana zia, rimasta zitella, venisse a vivere con lei, insieme avrebbero affrontato meglio l’evenienza ed essere in compagnia.

Dopo un po’ di tempo Luca fece altre visite, ma tra i discorsi di circostanza, i vaghi ragionamenti sull’andamento dei prezzi delle pietre preziose, i movimenti degli occhi, un certo intercalare tiepido, le mani che tradiscono inconsciamente l’insorgere di sentimenti, di desiderio di toccarsi. Così Luca mosse il magma delle passioni; un’altra volta che si recò da Marta non furono tanto i convenevoli e le notizie sugli affari che lo interessarono quanto gli atteggiamenti di lei, sostenere il suo sguardo e dire con gli occhi ciò che la bocca ancora non osava. Non poteva?

Ancora no: il divario di classe lo scoraggiava e lo stimolava, ma conosceva le sue qualità e non volle arrendersi.

Con la pazienza propria del grande amore, quando andava a trovarla sottolineava alcuni gesti, parole e dimostrava quell’accortezza nell’assecondare tutto quello che lei diceva. Questa strategia sortì l’effetto sperato, e quando Marta acconsentì ad un incontro privato Luca sentì liquefarsi: friniscono gli acuti nei timpani finendo sotto la pelle.

In quell’incontro le rese manifesto ciò che ora i fatti evidenziavano: il suo sentimento, le notti insonni, i balbettii e le strane lunghe pause fra i loro discorsi nascondevano questo: amore e amore- fiamme alte sui lati, inebriata e conquistata Marta cedeva su tutta la linea. Cadevano i timori, i dubbi si trasformano in acuminate frecce che trapassano le barriere e tutte le corazze: restarono in balia del vortice glauco delle passioni, tanto più forte quanto più repressa dagli avvenimenti esterni. Davanti a loro si dischiudevano buchi neri dionisiaci. A quell’incontro ne seguirono molti altri, tra il colore tenue della luce soffusa, rinserrati nella cameretta, distesi completamente nudi sui tappeti di Samarcanda e i tra i liocorni di ardesia, avviluppati e fusi come nell’essere primordiale gli amanti fremevano in un unico e multiplo orgasmo. La pelle ambrata di Marta e il colorito piuttosto chiaro di Luca erano confusi dal brusio delle forme, dal movimento involontario dell’attrazione dei corpi; nell’intermezzo della tempesta erotica , si spalmavano sulle nudità marmellata di mirtillo a pretesto delle carezze e per cibarsi della delizia doppiamente dolce.

Una sera dopo cena si videro nel palazzetto gotico, ultimo investimento del defunto, vi passarono la notte e il giorno successivo amandosi incessantemente dimentichi di tutto, sotto gli alti tetti del salone centrale, tra le ogive delle porte, fra i diaspri della foresteria. Esausti al rientro, ricomposti sul filo della decenza, ma profondamente marchiati nei corpi riprendevano le occupazioni, ma i pensieri andavano all’ebbrezza delle passioni e alla certezza di poterle ripetere in dense volute di fumo rosa. Dall’altro lato dell’esistenza, in quel periodo, le preoccupazioni di Luca assumono forme più venali, che soltanto il suo passato poteva giustificare, esse si dirigono con la forza dei fatti ad accrescere il suo patrimonio personale, all’occorrenza anche attraverso lavori extra: si andava adagiando nella prateria della opulenza e della vanità.

Attraverso questa lente, le parole nell’esercitare il commercio dei prodotti, assumono un valore decisivo nello sciorinare meraviglie di ricercati gioielli che il suo virtuosismo discorsivo continuamente decantava. Pian piano accanto ai sapori mellitici dei furori dei sensi, Luca saggiava quel piacere sottile che si prova detenendo cospicue risorse finanziarie; alla lunga, pensava, tra i due il secondo avrebbe potuto dare più gratificazioni, spegnendo anche quel desiderio che consiste nel sentirsi un po’ ricchi. I rapporti con Marta ora diminuivano di frequenza ma non di intensità, sembrava a Luca che lei avesse ereditato la parte più estrosa e incostante di suo padre, il desiderio di novità era diventato così forte che alla fine, dopo circa tre anni dal loro amarsi, Luca fu chiamato dall’amministratore per comunicazioni.

All’orario prefissato, serenamente, si dispose per ascoltare ogni piccolo dettaglio; il delegato estrasse da un cassetto della scrivania una lettera sigillata dicendo che l’aveva ricevuta da Marta con l’ingiunzione di aprirla solo ora, ne ruppe i sigilli e iniziò a leggere un lungo foglio vergato: Marta aveva deciso di disfarsi del negozio e di altri beni, vendendoli al miglior prezzo, seguivano altre condizioni su come investire il ricavato e infine per ottemperare ad un obbligo di gratitudine venivano concessi beni immobili e una grossa somma di denaro come liquidazione a Luca , la chiusa esprimeva lode con la quale lo stesso aveva svolto il suo lavoro. L’amministratore dopo gli porse un foglio con cui accettava queste condizioni, Luca dopo averlo guardato ne appose la firma e quando furono completate le ultime operazioni di rito si avviò verso casa. Non si accorse degli alti pioppi costeggianti la via, della euforica giornata, malcelando l’emozione per la notizia si rese conto di essere diventato ricco; il suo patrimonio personale e quello che aveva ricevuto gli avrebbero permesso di vivere molte vite tranquillamente fra agi e lusso.

A casa, mentre cercava di mettere ordine alle cose per l’imminente trasloco sentì suonare alla porta; il telegramma che l’addetto postale gli consegnò veniva dalla Polinesia, l’intestazione conteneva poche ma significative parole: “ E’ stato tutto molto bello! Addio, Marta.” L’evidenza di averla definitivamente perduta lo turbò per poco tempo.

2

Quando l’avanzarsi dell’alba fa scuotere la superficie dei corpi allora l’anima vuole godere; l’aurora era per Luca il momento dove i desideri diventano frizzanti: non si rincorrono frastornati e mesti come alla soffice luce meridiana, ma si ergevano a strati definiti sulla trasparenza dei chiarori. Luca così si trasferì nel palazzetto gotico facente parte ormai delle sue proprietà, nella nuova dimora si prefisse di trascorrere una vita serena godendo dei suoi averi, assume due domestici per far fronte ai suoi bisogni e per accudire la casa.

Diluite le passioni, principe del luogo, si faceva vedere durante le passeggiate riccamente vestito: sete e abiti ben fatti per ricoprire di magnificenza la sua condizione, belle donne per le distrazioni sensuali; tanta ostentazione attirava da una parte l’invidia dei vicini, dando adito a infiniti pettegolezzi, dall’altra convogliando nella casa qualche barbone intirizzito dal freddo e dalla fame. Nel vederli si ricordava della sua fanciullezza, la miseria e i patimenti, ora però bisognava difendere ciò che fortuna e lavoro gli avevano dato, diede dunque ordine di allontanare a mani

vuote chiunque si presentasse alla porta per accattonare.

I più cocciuti insistevano e quando constatavano che il domestico era irremovibile si sistemavano ai lati del vialetto aspettando un’altra occasione. Una volta due infelici abbrutiti dall’inezia, inebetiti dagli stenti, raccolsero le loro forze gridando per cercare di ottenere un po’ di cibo: dopo si allontanarono barcollando quanto mai avviliti per non aver avuto niente.

A tanta avarizia e durezza di cuore da parte di Luca ne corrispondeva da parte dei miserabili più tenacia convinti che prima o poi qualcuno avrebbe ottenuto qualcosa. Era una specie di assedio. Involontariamente i poveri si disposero intorno alla casa quasi impedendo ai domestici di fare la spesa. Una sera uno di questi, dopo aver fatto delle compere si accingeva a rincasare: all’imbocco del vialetto che conduceva all’ingresso fu assalito e depredato da sette disperati dallo sguardo torvo e famelico. Malconcio rientrò a casa raccontando al padrone l’accaduto, a tale audacia necessitava prendere qualche rimedio.

Coinvolto in una lotta che non aveva voluto, Luca sperò nella legge per risolvere la situazione; telefonò alla polizia e l’arrivo subitaneo degli agenti provocò scompiglio nella variopinta compagnia: molti si diedero alla fuga, altri stremati dalla debolezza non opposero nessuna resistenza, i responsabili dell’aggressione furono catturati e i rimanenti allontanati dalla zona. Soddisfatto da questa conclusione Luca ringraziò gli agenti: era così libero di muoversi, per vedere, esultare semplicemente delle cose e della vita.

Un anno dopo però riapparvero altri nuovi gruppi di indigenti, inferiori per numero a quelli di prima, si limitarono a starsene ad una certa distanza dalla casa, facendo di tanto in tanto un giro di perlustrazione per poi ritornare al punto di partenza; non molestarono nessuno e per questo non allarmarono Luca. Le sue idee si vanno distillando, si spostano in una doppia realtà: paura e curiosità? Il diverso affascina ma allo stesso tempo turba. Così Luca titubante prima, poi quasi misteriosamente attratto dal modo di vivere di quei poveri diede disposizione al domestico di lasciar entrare chi di loro ne avrebbe manifestato l’intenzione. Un giorno uno di questi varcò la soglia e fu accompagnato nella sala da pranzo.

Luca fu avvertito e s’incamminò per andare a vedere lo strano ospite, sontuosamente vestito si situò nel lato opposto del tavolo dove era seduto l’altro; questi sembrava una persona di mezza età ma che le ristrettezze della vita avevano logorato le fattezze del corpo facendolo apparire più vecchio dell’effettiva età.

Luca dopo averlo guardato attentamente domandò: - Come ti chiami?- -Cristoforo- -Da dove vieni?- In qualsiasi posto c’è gente e c’è vita. – Nel frattempo essendogli stata servita una voluminosa zuppa con del pane e del vino, con fare misurato prese a mangiarla lentamente, come se in fondo non avesse molta fame. Poi dopo aver finito, scavando negli occhi di Luca, con fare meditabondo, iniziò a dire: - Che ne sarebbe del sole se non ci fosse niente su cui far risplendere la sua luce e il suo calore? Che ne sarebbe dell’acqua se non ci fosse nessuno da dissetare? Che ne sarebbe del ricco se non avesse un povero con cui confrontarsi, e dell’uomo se non riuscisse a trasformarsi.-

Sorpreso da queste parole Luca a sua volte disse: -La vita mi ha abituato a tutt’altra specie di preoccupazioni e di pensieri, francamente non quelli che vuoi dire.- Cristoforo riprese come se non avesse ascoltato: - E’ stato il fervore della ricerca della sapienza che mi ha fatto trasalire, aperti gli occhi ho cercato la verità inseguendola, pur non raggiungendola mai, mi è rimasta però una traccia, una via con la quale additare chi ancora è lontano da essa. Impegnato in questo sentiero ho abbandonato ciò che avevo scegliendo la precarietà di una esistenza randagia: che cosa è la vita se non cambiamenti orientati all’altruismo?- Luca si percepì nudo, manipolava insicure le emozioni, le sensazioni, gli parve essere in un’arida steppa. Dopo un breve silenzio Cristoforo riprese: - Io e

altri come me non fece niente da sé.

Affascinato magicamente dalle molteplici potenzialità che andavo intravedendo mi sorpresi strutturalmente diverso, la sapienza incedeva facendomi prima

straniare da me stesso e dagli altri poi scoprendomi fondamentalmente rivoluzionato. I miei amici fuori custodiscono libri, manoscritti antichi e recenti, con il mio aiuto ti posso accostare verso una diversa visione di interpretare le cose.- Con un cenno di consenso Luca gli fece capire di gradire l’iniziativa, dopo Cristoforo salutandolo se ne andò promettendo di ritornare l’indomani.

Sembrava a Luca di aver imboccato una strada impervia nella quale è facile perdersi, ma l’attesa, e come una voce misteriosa dentro, l’incoraggiavano; concluse, infine, che ogni progresso e novità rinvigoriscono più di quanto si possa ammettere il proprio mondo, iniziava in buona fede ad affiancare il pensiero alle caleidoscopiche immagini di quella possibile realtà. Il giorno dopo, allo stesso orario, gli arrivò l’annuncio che c’erano delle visite.

Cristoforo questa volta non venne solo, sei persone l’accompagnavano, furono fatti accomodare nella sala da pranzo; quando comparve Luca nello splendore dei suoi vestiti Cristoforo gli disse: -Sono parecchi giorni che non mangiano, non daranno fastidio oltre a ciò, ti prego di dar loro qualcosa da mangiare mentre io ti farò conoscere, indicando un capiente baule metallico che era presso il tavolo, quei libri di cui ti avevo accennato.- Luca guardando la cenciosa comitiva acconsentì, fece provvedere affinchè i nuovi ospiti fossero soddisfatti, poi con Cristoforo andarono al piano di sopra; qui su un tavolo, dopo aver aperto il baule, Luca fece appello a tutta la sua attenzione per non lasciarsi sfuggire dei particolari.

Così Cristoforo lo iniziò alla conoscenza mistica della materia e dell’uomo, srotolando decrepite pergamene gli spiegò simboli, archetipi, fasi e allegorie, da altri libri scoloriti dagli anni gli fece apprendere le meraviglie dell’arcano. Assorti nel cercare di capire quei contenuti non si accorsero del passare del tempo, se non quando sentendo uno squillo alla porta si resero conto che era ora della cena. Entrambi scesero di sotto trovando gli altri che parlavano fra di loro, tra questi un uomo, Giuseppe, colpì l’attenzione di Luca per la sua pacatezza e sagacia, dopo cena raccontò a Luca la sua vicenda umana di soprusi e povertà e infine della tranquilla accettazione del presente, ma anche della sua voglia di viaggiare e capire. Finita la conversazione Luca pregò la compagnia di restare a dormire, annuirono e li fece sistemare in una stanza. Rimasto solo, nella camera da letto, accese nuove candele profumate inondando la camera di una luminosità chiara e diffusa. Emersero dubbi su quel che gli stava succedendo.

La sua vita così concreta che si incamminava tra le vie della fascinosità e dell’esoterismo. Pensò un po’ a questo e se il sonno non veniva era segno che qualcosa stava germinando.

Dall’oscurità nasce la vita, ma essa si sviluppa fra i candori del sole.

Bisognava colmare dei vuoti. Improvvisamente lo attanagliò l’ansia dell’erudizione, visto che nella sua vita si era interessato ad altro, ora si presentava come una sete indomabile. Il terreno era fertile: era necessario seminare. Si promise che nella mattinata avrebbe comprato altri libri, non a caso, ma sistematicamente, cercando di integrare quelle manchevolezze a cui si incorreva nelle opere e nei testi che Cristoforo aveva portato. Pensò poi a Marta a quel particolare periodo che si era allontanato così velocemente; alla sua famiglia i cui genitori morti avevano lasciato fratelli e sorelle in balia della sorte, altre vite, ognuno per la sua strada perseguitato dai bisogni.

Si accorse di essere al buio, le candele avevano finito di bruciare, ebbe l’impressione che per un attimo sopra e sotto, migliaia di gusci si aprivano lasciando venir fuori altrettante sfere opalescenti di persone sorridenti. Scosse il corpo, l’immagine scomparve e si addormentò. L’indomani fece il giro delle librerie ritornando a casa con una ventina di volumi e nel pomeriggio con Cristoforo li analizzarono confrontando criticamente i vari testi, mentre al piano di sotto una nuova comitiva,nel frattempo, si rifocillava. Iniziò per Luca un periodo di qualche anno di assimilazione, riflessione, giorno dopo giorno infaticabilmente, la sua conoscenza da grezza andava modellandosi verso pregnanti livelli di consapevolezza.

L’allargamento di questa visuale non poteva non ripercuotersi nell’aspetto esteriore. Esso mutato dal sapere, svelava ora tutta la sua effimeratezza, la sua vanità. Una sera comparve, fra l’ennesima nuova compagnia, vestito in maniera dimessa e la pacatezza delle sue parole denotavano a quanti lo conoscevano l’imminente metamorfosi interiore, parlò a lungo con le persone, Lucia, Alex, le solite

storie di miseria, speranze ormai sopite di rassegnazione, poi i saluti sul filo delle emozioni, un arrivederci di vero cuore.

Un pomeriggio riunì i domestici e gli comunicò che ormai la loro presenza era superflua e dopo aver concesso un lauto compenso se ne andarono increduli e scioccati dall’esperienza avuta. In un secondo tempo anche la presenza dei poveri diminuiva e le loro visite erano più contenute, pur lasciando la porta aperta per coloro che volessero entrare. Un giorno Cristoforo gli annunciò che doveva partire poiché ormai quello che aveva da insegnargli era stato fatto e la sua presenza era quasi superflua; Luca non potè impedirlo e il suo maestro riprese le carte con i geroglifici, i libri bruniti e nuovi, li mise dentro il baule, e abbracciando Luca, lietamente si separarono. Rimasto solo non disanimò, spinto da una forza interiore si rituffò a capofitto tra i libri e le pergamene che ormai riempivano la stanza e per un po’ di tempo ancora questo fu il suo cibo.

Poi Luca si scoprì diverso.

Come quando si apre uno scrigno inviolato da tempo per scoprirne il contenuto, così per Luca i vari organi del suo corpo sembrava che appartenessero ad un’altra persona e per effetto del riverbero dell’Opera si curò di esso quel tanto necessario per custodire ciò che di prezioso aveva nel pensiero. Il suo nome, le sue precedenti aspirazioni svanirono. Si rese conto di non aver più bisogno di quegli involucri che si chiamano case… da dietro la finestra vide passare sulla strada uno di quei poveracci, pensò, allora anche lui…

Uscì fuori all’aria aperta e si sentì, per la prima volta, in perfetta armonia con la natura e constatò che nessuna realizzazione fatta dall’uomo, per quanto raffinata, poteva reggere il confronto con la prodigiosità del creato.

Le cose gli apparivano sotto un altro aspetto, filosofico, mai intravisto prima; concluse che l’oro, i soldi non sarebbero stati più importanti, ma avrebbero aiutato chi aveva bisogno per accrescere il loro benessere essenziale. Ricordò l’amico che l’aveva aiutato nella gioventù e quando gli affidò il palazzetto, per trasformarlo in biblioteca pubblica e al piano terra adibito a mensa per i viandanti, il vecchio riconoscendolo, lodò il Creatore per l’accaduto.

Dopo numerose ricerche rintracciò i suoi parenti più prossimi donando a ciascuno una cospicua somma di denaro. Nel giro di pochi giorni volle disfarsi del grande patrimonio fatto in tanti anni di fatiche e perseveranza. Più donava maggiormente si liberava dal peso dell’avere e della vacuità. Alla fine dopo aver dato quasi tutto a chi aveva bisogno, decise di tenersi una modesta casetta in aperta campagna, isolata, il cui valore pecuniario era irrisorio. Scioglieva le vele ai soffi casuali della brezza, fluttuando nella luce, rimbalzava nei continenti.

3

Sento che una rotonda verità mi scuote dentro. Come un bisogno di agire, mi intima di manifestarmi. Non posso restare a lungo pieno di sapienza. Sento la necessità di ampi spazi, di andare in luoghi dove la terra invoca aiuto. Decido serenamente. Piego sommessamente il corpo, raccolgo le forze, la verità, l’amore. Adesso!

Ci sono tanti modi per aiutare gli altri, ho scelto di fare l’infermiere, per cercare di mitigare le sofferenze, le amarezze del vivere e perché così il contatto è più immediato. Ho frequentato con successo il relativo corso e dopo averlo finito mi associo a un gruppo di volontari diretti in Brasile.

Nei paesi esteri, oltre che conoscere la lingua, è necessario dimostrare coi fatti le proprie intenzioni.

Non legato ai pregiudizi sono pronto a tutto, più di ogni cosa a vivere, per fare quello che nel corso della vita non ho potuto, sia per voluttà che per trascuratezza. Ora posso. La mia gioia sta soprattutto nell’essere un esempio, nel tentativo di convincere chi ha troppo. Povero tra i poveri, anonimo tra anonimi in una condizione aperta. Quel che so è tanto e poco, ma la certezza di una consapevolezza interiore mi fa sorvolare sulle imperfezioni e le minuziosità del vivere quotidiano.

Appena arrivato trovo le condizioni del villaggio peggio di come sommariamente sapevo. Insieme al gruppo dobbiamo iniziare dalle basi.

L’acqua è lontana e la terra per quanto fertile è coltivata in maniera impropria, gli indios, qualcuno di loro, conducono una vita grama e il resto degli abitanti fa poco, le abitazioni sono costruite male e alcune mi ricordano quella della mia infanzia. Infuriano le malattie e gli insetti sono un fastidioso componente del clima caldo-umido dei tropici. La vita quotidiana è disperata; comunque con il nostro interessamento e pressioni abbiamo fatto arrivare, dal capoluogo, entro poco tempo una squadra di muratori per avviare i lavori di costruzione delle strutture fondamentali, tra cui un piccolo ospedale.

Io stesso, nei momenti di inazione, mi coinvolgo in questo lavorio. Insieme agli indios abbiamo costruito enormi cisterne per contenere l’acqua per utilizzarla nelle varie occasioni; ferve il lavoro e se a volte qualcuno dà segni di stanchezza cerco di rincuorarlo sottolineando lo scopo, la gioia, la filantropia.

E quando la sera, spossato per le fatiche del giorno, mi accingo a riposare non è tanto l’idea di quando finiremo di costruire, quanto della piccola felicità legata ad ogni singolo momento trascorso, di disponibilità per gli altri. Man mano le condizioni igieniche migliorano, grazie ai farmaci, alla pulizia e quando alla fine il piccolo ospedale è ultimato ci pervade una gioia maestosa e lieve.

La sera dopo cena ci raduniamo in piccoli gruppi per socializzare, scambiarci esperienze con persone nuove tramite quel modo di esprimersi che consiste più nei gesti che nelle parole. In uno di questi incontri vengo a sapere dell’esistenza, in un villaggio lontano, di altri gruppi di aiuto umanitario, ma per quanto insistessi non riesco a saperne di più. Dopo qualche giorno vengo a sapere con precisione la distanza più di 150 km. e il luogo; faccio conoscere ai miei amici la mia intenzione di andare a visitare quel sperduto villaggio appena le attuali condizioni l’avrebbero consentito.

I miei compagni sono dapprima perplessi, di questa mia decisione, poi vagamente manifestarono l’intenzione di approvarla e non mi ostacolarono. La vita nel villaggio, intanto continuava nel miglior modo possibile, le infrastrutture di base sono state completate e adesso si pensa a gestire ottimamente la normalità, nel rispetto di quella cultura diversa e nella consapevolezza di essere un’unica famiglia. Nell’ambulatorio medico aiuto i malati, detergo le ferite, lenisco le piaghe e le mie mani un tempo esperte nella lavorazione dei preziosi, ora sono di grande aiuto, di grande perizia nel minimizzare il dolore della carne.

Un indios, un giorno mi si accosta timidamente e curiosa nelle mie operazioni, è sveglio e attento, affabile; lo prendo con me e lo inizio alla professione e in breve tempo è riuscito a imparare nozioni e manualità che generalmente richiedono più durata. Mi ci sono affezionato con una spontaneità semplice e naturale.

Trascorre così un periodo fecondo e attivo, le riunioni e gli scambi continuano, una sera, casualmente, conosco direttamente un missionario che era stato in quel lontano villaggio, lo prego di parlarmene e dopo un po’ gli propongo di accompagnarmi in questo posto, l’altro rimase sorpreso ma alla fine acconsente.

Siamo rimasti d’accordo di partire il giorno dopo, di prima mattina, con lo stretto necessario per affrontare il viaggio.

Parlo, dopo, con i miei compagni circa la mia decisione che in parte già sapevano; mi raccomandano di fare attenzione ai tanti pericoli che la foresta nasconde, nel frattempo all’infermeria mi sostituisce con gioia il giovane che avevo addestrato.

Assicuro che massimo fra dieci giorni ritorno e se non fossi ritornato avrei comunque avvertito. Prendo molte precauzioni e insieme alla guida dividiamo il fardello delle provviste, porto un fucile per difenderci eventualmente dagli animali. All’orario stabilito ci mettiamo in marcia, prevedo due giorni pieni di viaggio, includendo anche le relative soste per riposarci e ristorarci. Attraverso piste seminascoste dalla terra friabile, nella vastità del territorio proseguiamo a tratti con qualche difficoltà che viene superata, ci sono odori pesanti e pungenti, il caldo, sciami di insetti che appaiono all’improvviso come i pecari ci disturbano, ma non ci fanno recedere. Di tanto in tanto

qualche giaguaro, con intenzioni poco amichevoli, sembrava si avvicinasse pericolosamente a noi, però cambia direzione e si allontana. L’ambiente appare di tutti i toni smeraldini nel suo vociare di vita.

E’ uno spettacolo a cui assisto cercando di assorbire quel flusso vitale che pervade l’aria e la riempie di onde centrifughe, ne respiro la linfa e per un po’ mi perdo nel contemplare gli altissimi

samauma i cui rami fanno vedere del cielo solo qualche sprazzo.

L’indomani il paesaggio è alternato di radure, incrociamo persone e ci scambiamo qualche bevanda tonica, uno di questi mi fece capire che al villaggio dove erano diretti c’è una specie di capo che tratta gli abitanti con disprezzo.

Sono contrariato da questo, ma anche incentivato, vedo manifestarsi nel mio compagno un certo nervosismo. Il resto del tragitto lo compiamo alacremente e nella mattinata del terzo giorno già intravedo le prime capanne del villaggio; arrivati scopriamo che gli abitanti dimostrano una certa diffidenza nei nostri riguardi, cercando il più possibile di evitarci, mi accorgo di questa ostilità ma voglio raggiungere lo scopo e dopo vari tentativi ottengo maggiori informazioni: un capo missionario forse europeo ha il comando e il controllo della zona, esercitandolo in maniera rigida favorito sia da alleati ex-garimpeiros avidi di vivere di rendita, sia dalla lontananza da superiori organi di controllo, sia con la forza delle armi.

Un indios mi indica la strada per raggiungere la residenza e la percorriamo ed essa, dopo una curva, ci appare magnifica come diamante circondata da umili gemme; è costantemente presidiata da sentinelle armate che le ruotano attorno. Quando ci hanno visto una si avvicina rudemente con il proposito di ispezionarci, esprimo l’intenzione di voler parlare con il capo di diplomazia e commercio e la guardia dopo aver preso i miei documenti sparisce verso la casa, mentre un’altra ci teneva sotto tiro; quando ritorna ci fece segno di seguirlo. Attraversiamo l’ampio corridoio ed entriamo in una grande sala ripiena di ricercatezze. File di quadri di celebri pennelli, candelabri e statue d’oro a grandezza naturale, pelli di animali, sculture in nefrite e altri oggetti il cui eccessivo valore contrastava con il resto del villaggio.

Ora sono accompagnato da pensieri profondi, lontano dalle cose che mi circondano, mi dirigo, scivolando sopra lo splendido tappeto centrale, verso lo scranno dove vi è seduto un uomo dalla carnagione chiara, quella persona è in parte quel che io sono stato.

Cerco ancora di riflettere e di far breccia in quell’uomo, avvicinandomi ho un sussulto, nei suoi lineamenti rovistando nella mia memoria, ne riconosco un volto già visto, quando sono più vicino questa impressione diventa realtà: ”Giuseppe” e lui si lascia sfuggire “Luca”.

Quel giovane che anni fa era venuto più volte a ristorarsi nella mia casa ora è diventato una persona potente e arrogante; per un po’ i nostri sguardi si fondono poi Giuseppe si alza e mi abbraccia incredulo, mi accorgo della sua emozione e con voce profonda inizio a dirgli: “ Non si può essere sazi abbastanza quando è evidente che altre persone implorano soccorso, si vive soli quel tanto che basta per maturare, nella luce della realtà dove c’è più bisogno è necessario andare, distribuendo tutto il superfluo a quelle persone che per sorte non hanno avuto il benessere. La vita è amore e non si può ricevere senza dare.” Giuseppe risponde :” Perché privarsi dei piaceri e delle comodità quando sono state in qualche modo guadagnate?”.

Continuo :” A che serve essere ricchi. Ricchezza e povertà sono concetti che angustiano il desiderio di uguaglianza, l’amore per gli altri resta: siamo transeunti e siamo eterni.”

Intercede una pausa. Mestamente Giuseppe abbassa le proprie ali di sparviero per la evidente verità. Riprendo :” La vita è amore e disponibilità verso gli altri, slanciati nella mitezza delle opere diventiamo come anime perseveranti, perennemente affabili e concreti dimostriamo coi fatti le nostre intenzioni”.

Tolgo l’ultima nebbia persistente nella mente di Giuseppe, accenno ad andarmene porgendogli il mio braccio, con la convinzione di una fulminea ma profonda metamorfosi, conferma di seguirmi. Quando siamo fuori, nella viva aria dorata, Giuseppe chiama un indios e tra lo stupore di questi gli consegna un foglio nel quale rinuncia a tutti i suoi averi , e raccomanda equità e amore fra le varie persone del villaggio.

All’uomo che mi ha accompagnato durante il viaggio di andata consegno una lettera per recarla al mio villaggio di partenza, quanto a me e a Giuseppe la strada maestra della virtù continuiamo a percorrere.


Benedetto Demmi 28/03/2011 15:14 936

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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