Nel momento in cui identificò l’ estraneo, Kandir rimase sbigottito.
Su uno dei rami scheletrici della grande quercia si era posata una civetta e, nello stesso momento, un tremito improvviso scosse il tronco dell’ albero, che ancora una volta fece sentire il suo lamento e scosse i rami, forse per liberarsi del fastidioso intruso.
Per un istante Kandir si era illuso che si trattava della sua amica pennuta.
« Smeraldine!» scandirono le sue labbra mentre un largo sorriso gli illuminava il volto, ma il tremito convulso della quercia gli fece intuire l’ errore. Si trattava di un nuovo nemico e quello da civetta era solo un travestimento per trarlo in inganno.
Gli occhi della civetta baluginarono e il becco si aprì minaccioso.
“Devo ripararmi” pensò Kandir, “Non posso affrontare il becco e gli artigli di quel rapace senza protezione”
Sfiorò i simboli magici dipinti sull’ orlatura della sua tunica e, ripetuta mentalmente la formula arcana, socchiuse gli occhi e si concentrò. In un nanosecondo il suo corpo venne ricoperto da una sottile armatura.
Per un attimo scandagliò la consistenza sottile della corazza, quasi una guaina che aderiva perfettamente al suo corpo, esaltando la possanza delle spalle e della muscolatura; il peso dell’ argento appena avvertibile. Kandir si congratulò con se stesso: quell’ armatura era un capolavoro, che gli aderiva addosso come una seconda pelle.
Incuriosito, il rapace lo aveva scrutato con attenzione ma, in quel momento, frullò le ali e si lanciò, piombandogli addosso in un attacco violento e cercando di strappargli l’ elmo dalla testa.
Che si trattasse di una sola avanguardia, Kandir lo constatò a sue spese. Dopo pochi istanti l’ aria turbinò, smossa da decine e decine di ali, che frullavano con violenza provocando lo stormire delle fronde dei pochi alberi sempreverdi, nonostante il malvagio sortilegio.
Poi fu soltanto una sequela di beccate e di artigli contro la sua armatura e Kandir si benedì per aver pensato a quella protezione.
Eppure, se anche l’ elmo gli offrì un’ efficace copertura, il metallo fece da amplificatore del rumore.
Una gragnola di beccate rimbalzò nella sua mente, simile a una violenta sassaiola.
Tentò di difendersi come meglio poteva, ma i becchi erano lunghi e affilati e le civette tentavano d’ intrufolarli nella feritoia per raggiungere gli occhi.
Seppur menando fendenti micidiali a destra e a manca, tali da creare scompiglio nel gruppo delle assalitrici, Kandir sentì di non potercela fare solo con la sua forza. Inoltre, i volatili, oltre a essere in vantaggio numerico, come lui, con la vista erano in grado di squarciare le tenebre della notte.
Non si perse comunque d’ animo e si buttò con coraggio e con determinazione contro quelle furie alate.
Durante l’ impari scontro ebbe attimi di sconcerto. Ogni volta che affondava la lama gli sembrava di udire le urla di dolore di Smeraldine, o di vederne gli occhi verdi spalancati in una espressione di terrore.
La cosa si ripeté più volte e in quelle occasioni si fermava, offrendo così buone opportunità di infierire alle avversarie.
Confuso, per un po’ subì indietreggiando ma, quando si trovò costretto con le spalle a un tronco senza possibilità di azione, fu costretto a riflettere.
Qualcosa che non quadrava. Non poteva certo trattarsi veramente della voce della sua amica.
Iniziò a percepire l’ ennesimo inganno nell’ aria e allertò il suo sesto senso, quello che gli permetteva di avvertire oscure presenze nelle vicinanze.
In quel momento, il sentore malefico aleggiava forte, pari a un olezzo assai fastidioso.
E allora intuì che si trattava solo di un trucco infame, atto a sconcertarlo e a metterlo in seria difficoltà. Per fortuna, se ne era reso conto in tempo. Non c’ era cascato ma, forse, se n’ era accorto troppo tardi!
I rapaci approfittarono di quegli attimi di incertezza serrandolo in una morsa di poderosi becchi e di artigli.
Kandir sembrò perdere la coordinazione dei movimenti e la lucidità dei pensieri.
Iniziò a muoversi a scatti e sempre più lentamente, quasi fosse un robot o un burattino.
Un profondo senso di sgomento s’ impossessò del suo animo.
Non gli era mai accaduto prima. Quel nemico o quei nemici si erano dimostrati troppo forti e lui, oltre alle energie, iniziava a perdere persino la fiducia in se stesso.
La situazione si era fatta delicata e ora si trovava in serio pericolo di vita.
La sua armatura era tutta ammaccata e i becchi appuntiti erano anche riusciti a penetrare in qualche punto e a ferire la sua pelle.
In quel momento rimpianse di aver conferito più leggerezza che solidità alla sua armatura ma che, comunque, fosse inutile recriminare, ormai l’ errore di valutazione lo stava pagando caro e non c’ era modo di rimediare.
Le forze lo stavano abbandonando e i volatili dovettero avvertire quella sua debolezza, perché centuplicarono gli attacchi e gli affondi.
Kandir si sentì sul punto di svenire. La confusione all’ interno dell’ armatura era diventata insostenibile. I rapaci aveva preso di mira il suo elmo e, percependo che era il punto più debole, lo bombardavano di colpi.
Ebbe la forza, prima di perdere i sensi, di portare la mano al petto, dove avvertiva un bruciore intenso. Sospettò di essere stato ferito e si aspettava di vedere il sangue, ma nella sua mano guantata apparve l’ amuleto, che ora sprigionava una luce immensa.
In quel momento riacquisì un minimo di lucidità e puntò il talismano davanti agli occhi dei rapaci accecandoli, appena un istante prima che, nei suoi, scendesse il velo dell’ incoscienza.
Mentre l’ incantesimo si espandeva, la radura sembrò cristallizzarsi in un globo di luce violetta.
Il tempo si fermò in quell’ attimo di magia. I rapaci rimasero paralizzati in aria in posizione d’ attacco, dando l’ impressione di essere stati imbalsamati e sospesi nel vuoto tramite fili invisibili.
Su tutta la radura scese un silenzio irreale.
Il tempo divenne relativo all’ oblio che gli aveva avviluppato la coscienza.
Un nulla fatto di effimere percezioni e sensazioni, come filamenti che si propagavano intorno a lui. Forse labili essenze appartenenti al mondo della magia, che si insinuavano nella sua coscienza prigioniera dell’ anomalo letargo.
Forse, avvertì anche dei suoni, come echi di voci lontane, che rimbalzavano tra le pareti della sua anima vagante in una dimensione del tutto sconosciuta. E, con le voci, apparvero anche delle figure indistinte, eppure riconoscibili per i corpi esili, i volti dai menti appuntiti e le orecchie a punta. Qualche antenato! La sua gente. Le sue misteriose origini.
Il suo ego si adagiò su quelle immagini e su quelle arcaiche voci, che non erano affatto moleste ma che, al contrario, sembravano cullassero i suoi sogni.
Sogni e, all’ improvviso, un volto radioso che si sovrappose su tutto e che gli offrì uno sprone.
“ Svegliati, Kandir. Il tempo di questo oscuro oblio non può e non deve prolungarsi all’ infinito. Riapri gli occhi sul mondo e sulla vita.”
L’ immagine di Aster gli apparve nitida e poi la mano delicata che si protendeva verso la sua figura, supina sull’ arido terreno. La ninfa gli sorrideva e lo spronava ad afferrarle la mano. Kandir scrollò la testa annebbiata dalle visioni e dai sogni e accettò con decisione quell’ aiuto inaspettato, rialzandosi.
Il calore e l’ energia scaturite da quel contatto, lo aiutarono a riprendersi dallo stato di profondo torpore in cui era caduto, poi quella figura svanì in un lampo di luce, che quasi lo accecò. Chiuse gli occhi, mentre il rimpianto per quel distacco lo aggredì dolorosamente.
Aveva il respiro corto e affannoso e le gambe gli tremavano, come se avesse corso per chilometri, eppure, quando riaprì gli occhi, il pezzetto di cielo che s’ intravedeva tra le cime degli alberi, schiariva con i primi albori del mattino.
Mentre rifletteva sugli scontri del giorno prima, deboli raggi di sole filtrarono miseramente tra i rami scheletrici e il bosco rimaneva avvolto in un silenzio angoscioso.
La ninfa lo aveva salvato, strappandolo a quell’ oscura dimensione, che non apparteneva ai vivi, ma a quanto pareva l’ incubo non era ancora finito.
Intorno a lui regnava ancora un clima surreale.
Immerso nelle sue elucubrazioni non si accorse che l’ atmosfera si era di nuovo raggelata. Lo avvertì il suo sesto senso con un fastidioso formicolio alla nuca. Si volse di scatto, alla ricerca degli occhi puntati su di lui, ma il bosco era una macchia di nero assoluto, un abisso imperscrutabile, che nemmeno la sua vista da Elfo riuscì a perforare.
Kandir se ne meravigliò: davanti a lui sprazzi della luce del giorno mentre, alle sue spalle, si stendeva la notte più oscura.
“ Ombre! Solo e soltanto ombre, che mi seguono e mi assediano! Maledizione! L’ alba è già sorta da alcuni minuti e sembra invece che sia mezzanotte! “
Proseguì con passo più cauto e i sensi all’ erta ma inciampò in una grossa e spessa radice che, inspiegabilmente, non aveva visto prima.
Kandir barcollò e faticò a riprendere l’ equilibrio. Il suo respiro si fece più profondo e il cuore accelerò i battiti. I suoi nervi tesi allo spasimo lo avvertivano che qualcosa di malvagio e alieno stava tramando nell’ oscurità celandosi tra le intricate trame degli arbusti e dei tronchi. “ Attento, candido stregone!” lo avvertì la voce flebile di un vecchio frassino.
“ Attento, Custode Silvestre! – sussurrò una betulla – Gli spiriti malvagi si sono ridestati e hanno brama di sangue!”
Le voci si alternavano e sovrapponevano, cariche di fruscii e sussulti e per lo stregone era difficile capire da dove provenissero.
“ Queste entità centenarie sono dalla mia parte e almeno da loro non ho nulla da temere!” pensò, traendo un minimo conforto da quella riflessione ma dimenticando del piccolo incidente causato poco prima dalla radice.
” Solo! Sei dannatamente solo!” sbraitò una voce sgradevole nella sua mente spazzando quell’ attimo fuggevole di sollievo.
Kandir s’ immobilizzò, saettando occhiate guardinghe intorno. Chi aveva parlato?
Sondò l’ aria, il terreno e gli alberi intorno, senza tuttavia trovare riscontro.
“ Forse è solo la stanchezza di questi giorni a farmi sentire voci che non esistono. Ho bisogno di riposare la mente e non solo il fisico.” concluse tra sé.
Il gelo lo colse all’ improvviso. “ Solo! Sei dannatamente solo!” Nel ricordare la frase buttata quasi con scherno nella sua coscienza, la solitudine l’ attanagliò in ogni fibra del suo essere cogliendolo del tutto impreparato. “ Aster! Smeraldine” Ripeté il nome delle amiche come fosse un mantra in grado di infondere calore in quel suo corpo percorso da brividi di gelo.
“ Non si tratta di freddo, bensì di paura!” confessò a se stesso, senza vergognarsi. Non si trattava certo della paura di affrontare il nemico, piuttosto il timore e lo sgomento che provava al pensiero della solitudine.
Riprese il cammino ormai del tutto immerso nelle sue elucubrazioni.
Per un istante quasi si compiacque del suo sgomento verso la solitudine. Un vero Elfo non avrebbe mai provato una simile emozione nel ritrovarsi solo. Anzi! Gli Elfi amavano il ritiro e la contemplazione solitaria della natura. Se per lui era il contrario significava che il suo sangue non era del tutto compromesso dalla componente elfica.
Quella conclusione gli donò soltanto un attimo di conforto, perché inciampò di nuovo in una contorta radice di un salice fuoriuscita improvvisamente dal terreno e rovinò malamente sul fondo pietroso. L’ impatto fu violento e gli strappò un gemito di dolore.
Non ebbe nemmeno il tempo di rialzarsi. Dall’ alto del salice caddero penzoloni, due rettili dalle dimensioni enormi.
No! Non due serpenti, bensì due vigorose propaggini le cui estremità si arricciarono, avviluppandolo per le caviglie quindi, con uno strattone, sollevandolo a testa in giù, penzoloni a qualche metro da terra.
« Per tutte le stelle!» inveì, sconcertato dalla sua stessa stupidità.
Perdendo tempo a confrontare le sue caratteristiche caratteriali con quelle degli Elfi, si era anche estraniato dalla realtà ed era finito in una trappola.
In quella scomoda posizione provò a scandire alcune formule, ma era troppo agitato e nessun incantesimo riuscì a sciogliere i legacci. Allora decise di ricorrere alla forza.
Incanalando tutta la sua energia nei muscoli dorsali e quelli addominali, si diede una spinta e con le braccia riuscì ad afferrare le sue caviglie, poi, con una mano sguainò il coltello che portava nella cintura e con qualche colpo secco, troncò le due propaggini che lo tenevano prigioniero. Con un’ agile capriola in aria atterrò sul terreno.
E quel piccolo spazio verde, che poco prima era del tutto deserto, in pochi istanti si popolò di ombre minacciose e Kandir, per l’ ennesima volta, si preparò a difendersi.
Gli Zombrac gli si pararono davanti, come tanti fantasmi.
Se possibile il loro aspetto gli parve ancora più terrificante del giorno prima.
Lo stregone si domandò cosa ci fosse di diverso da colpirlo a quel modo.
Poi li scrutò meglio e non poté fare a meno di rabbrividire. Le pustole virulente erano peggiorate, diventando piaghe estese in tutto il corpo che emanavano un fetore ancor più ributtante.
Il suo stomaco si contrasse e lui strabuzzò gli occhi per non vomitare.
Sulle piaghe di quegli esseri brulicavano i più disparati insetti.
In quel momento gli parve di riconoscerne uno. Quello era lo stesso Zombrac con cui aveva combattuto il giorno prima e che aveva creduto morto. Allora ebbe la raggelante intuizione: doveva affrontare creature ridestate dal sonno eterno, solo all’ apparenza viventi!
Il suo cuore si contrasse in una morsa angosciosa, e, nonostante il ribrezzo e il pericolo imminente, fu assalito da una pena immensa verso quei miseri resti vaganti.
Si domandò quale forza malvagia li avesse richiamati in vita per combattere contro di lui. E quanto oscuro potere possedeva per arrivare a fare un simile sortilegio?
La stessa forza oscura che aveva brama di potere e che aveva fatto sparire la saggia Smeraldine e la fata del bosco Aster.
Tutto gli apparve chiaro in quel momento, come gli apparve chiaro che doveva tornare a combattere senza dare tregua e senza alcuna pietà per gli Zombrac.
I cadaveri ambulanti, assai numerosi, avevano preso a girargli attorno, pronti a balzargli addosso. I loro volti, o meglio, quello che rimaneva dei loro volti, erano immobilizzati in ghigni satanici. Le mefitiche, orripilanti creature sentivano di avere la vittoria in pugno.
Occorreva agire con ancora più cautela, per non rischiare di essere colpito e infettato e allora Kandir realizzò che non bastava più la sottile armatura ideata con la magia il giorno prima, e tra l’ altro già molto danneggiata nello scontro con le civette. Doveva trovare il modo di rinforzarla.
Nella sua mente si materializzò l’ immagine di un antico cavaliere con l’ armatura argentea completa d’ elmo e scudo, e l’ attimo dopo si espanse il clangore del metallo che si serrava attorno al suo corpo, completa di usbergo, schinieri e spallaccio. Ne saggiò la consistenza e questa volta si ritenne soddisfatto. Con quella protezione era in grado di affrontare anche un intero stormo di rapaci.
Quando dopo un nanosecondo i suoi occhi si aprirono, le immagini degli Zombrac gli apparvero attraverso le fenditure che attraversavano l’ elmo. Poteva combattere senza correre il rischio di venire in contatto con la materia infettiva. O perlomeno, così si augurava.
La spada che brandiva, emanava bagliori azzurrini e sinistre scariche elettriche, ma le creature, seppur più guardinghe, non sembrarono affatto intimidite, seppure il loro passo fosse lento e incerto. Kandir ne osservò le movenze. Quegli esseri disgustosi si muovevano lentamente e a scatti, come fossero marionette guidate da un burattinaio.
Nonostante la loro lentezza, dovevano essere forti, perché, con le armi in pugno, cominciarono a serrare il cerchio in cui lo avevano costretto.
Gli effluvi emanati in massa dagli Zombrac, si comportarono come avessero vita e volontà proprie e iniziarono a fluttuare intorno a lui, simili a volute di fumo nell’ aria, penetrando nelle fenditure dell’ elmo. Inutilmente lo stregone tentò di sottrarsi alla fastidiosa invasione. L’ olezzo del marciume penetrò nell’ armatura stordendo i suoi sensi e appannandogli le idee.
Kandir si maledì per aver perso tempo prezioso a studiare gli avversari e aver trascurato quella pericolosa caratteristica.
Dovette fare uno sforzo sovrumano per non cedere alla nausea e allo sbandamento e formulò un incantesimo concentrandosi sull’ ameno ricordo di un rigoglioso giardino visitato alcuni giorni prima. L’ immagine di gigli, narcisi e rose balenò nella sua mente intorpidita, inondandola del profumo dei fiori e spazzando via le nocive esalazioni. Il voltastomaco si attenuò fino a svanire e poté sospirare di sollievo.
Non attese che lo aggredissero, ma si buttò a capofitto nella mischia, con la spada che emanava lampi azzurrini.
Il combattimento fu duro e violento. Assediato da più parti, molte lame affondarono nella sua armatura ammaccandola, ma il metallo intriso di magia tenne e nessuna spada riuscì a scalfire la sua pelle.
Non potendo tenere sotto controllo ogni incantesimo di protezione effettuato, ogni qualvolta affondava la lama in quelle carni putride, si sprigionava un fetore accentuato di marciume da lasciar senza fiato, ma ormai era troppo impegnato non solo a combattere, ma anche a cercare di evitare la miriade di gocce virulente che parevano costituire il sangue di quegli esseri.
Gli Zombrac colpivano affondando le armi, ma lo stregone attingeva forze inesauribili dalla ferrea volontà di distruggerli e di ritrovare le sue amiche.
Il pensiero che fossero in pericolo, gli servì da sprone e mise ancora più foga nel combattimento.
Nonostante lo svantaggio dell’ inferiorità numerica, l’ ago della bilancia si piegò ben presto in suo favore. I suoi avversari erano lentissimi e le loro mosse prevedibili. Kandir riusciva a prevenire gli affondi, anche se simultanei, a schivare, a scansarsi e a fluire agilmente tra uno Zombrac e l’ altro, tra una lama e un bastone come fosse una serpe.
Al contrario, i corpi dei morti viventi non avevano nessuna protezione e ogni colpo che lo stregone portava a segno, infliggeva ferite atroci nella carne già sin troppo martoriata dalla decomposizione
“ Solo! Sei completamente solo! Quanto tempo ancora potrai resistere?” Quella frase tornò a martellargli il cervello e lo stregone, conscio che si trattasse di una ulteriore illusione, atta a plagiarlo e metterlo in difficoltà, fu costretto a confinare quel pensiero in un recesso della sua mente impegnando però una buona parte della sua magia e rendendolo un po’ più vulnerabile nei confronti degli avversari.
Le abominevoli creature se ne resero conto all’ istante e decuplicarono gli attacchi e la velocità.
Non risultò altrettanto semplice liberarsi dei corpi che riusciva a infilzare, ma che sembravano esseri immuni all’ annientamento totale, a meno che, scoprì dopo svariati tentativi, non riuscisse a piantare la sua lama nella loro testa trapassando il loro cranio da parte a parte o decapitandoli. Nel momento in cui constatò il punto più debole per gli avversari non ci fu più scampo.
Lo sconcerto fu presto evidente tra gli aggressori.
Sul terreno erano stesi già parecchi corpi smembrati e si ritrovò infine davanti una sola delle creature che giaceva ai suoi piedi, forse ferita o, forse, solo esausta per il lungo combattimento sostenuto. Era difficile capirlo. Il liquido scuro che fuoriusciva dalla sua pelle si mescolava al pus e non si capiva da dove sgorgasse.
Kandir evitò di infierire perché, forse, il sopravvissuto avrebbe potuto guidarlo dove Smeraldine e Aster erano tenute prigioniere.
I due si scrutarono con attenzione.
Gli occhi dello Zombrac avevano perso ogni animosità e sembrava quasi domandassero una tregua. Si domandò se fosse giusto mantenere in vita una creatura che sembrava patire le pene dell’ inferno per lo stato in cui si trovava e, per istinto, avrebbe stroncato con un colpo di lama quella misera esistenza.
Avanzò di un passo, deciso a farsi dare le indicazioni giuste per ritrovare le sue amiche e compagne di avventure ma, in quel momento, i suoi sensi lo avvertirono di un nuovo pericolo e avanzò con più cautela.
Lo sguardo e l’ atteggiamento assunti dallo Zombrac gli suggerivano una profonda malinconia e ancora una volta Kandir provò pietà per quella misera creatura. La mente impegnata a tenere a bada sia il fetore che l’ assillo della voce sgradevole nella sua mente, la barriera alzata in sua difesa divenne sempre più effimera e l’ essere steso ai suoi piedi ne approfittò.
Uno scatto improvviso, imprevedibile per le condizioni dell’ aggressore, che in un attimo si rimise in piedi e con un affondo repentino, tentò di infilzare il giovane stregone. Tuttavia, Kandir era pronto e reagì, scansandosi ed evitando la lama, poi alzò la sua spada e con colpo secco decapitò l’ infame creatura.
Il corpo da una parte e la testa dall’ altra, lo Zombrac cadde e dopo pochi istanti le carni iniziarono a liquefarsi. Nell’ aria si diffuse l’ odore intenso e nauseabondo della morte.
Lo stregone bianco, in un impeto pietoso, si disse che ora finalmente quelle creature avrebbero potuto riposare in pace, perché nessun negromante avrebbe mai potuto riportarli in vita.
Era stata dura, ma aveva vinto. Era certo che si fosse trattato solo di una battaglia e che, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare coloro che avevano organizzato la blasfema, terrificante sceneggiata, che lo aveva visto protagonista ma, almeno per il momento, poteva rilassarsi.
Stava per cominciare i suoi esercizi di respirazione per sciogliere i muscoli dalla tensione e dalla rigidità accumulata durante lo scontro quando, nell’ aria immobile, si alzarono le prime note lugubri di una sinfonia funebre.
Kandir si guardò attorno e venne avvolto dall’ incantesimo più potente e meno prevedibile, di cui fosse mai venuto a conoscenza in quel mondo di magia. Un sortilegio di magia nera a cui sarebbe stato difficile resistere.
continua...