Era un uomo di cinquanta anni. Senza più famiglia e senza più lavoro. I suoi capelli bianchi e unti gli coprivano la testa sotto la pioggia. L’umidità e il freddo entravano dispettosi nelle costole, mentre la desolazione della stazione lo esaminava e lo baciava.
Dario quella notte non dormì e non fu la rigidità dell’inverno la causa.
Si era alzato dal letto, aveva guardato sua moglie. Aveva ammirato in silenzio quella donna che gli aveva donato cinque figli. L’aveva guardata come se la spiasse e, attento a non svegliarla, le aveva spostato i capelli delicatamente. Era la sua compagna di vita.
Il primo bacio, la prima volta in quello chalet abbandonato trasformato in un castello solo per lei, i suoi occhi neri sotto il velo bianco, i suoi capelli raccolti in una lunga treccia nera e morbida, i suoi baci sulla propria pelle, la nascita della primogenita, il sorriso dei suoi bimbi: tutto vagava confuso nella mente di Dario. I ricordi lo mangiavano. Ma era stato licenziato senza ritegno dopo trenta anni di fedeltà. Aveva perso i pochi soldi rimasti al maledetto gioco delle carte. Si era guardato allo specchio con ribrezzo e aveva sputato sulla propria immagine. Aveva scosso la testa e aveva pianto appoggiato al tavolo della cucina. Aveva preso un foglio e aveva scritto il suo addio: “Lucia, perdonami. Perdonami perché ho rovinato tutto. La ditta mi ha licenziato. E i soldi che avevamo in banca, li ho persi. Perdonami. Amore, ho fatto un’assicurazione sulla vita. Amore mio, prenditi cura dei bimbi. Dì loro che io li ho sempre amati. Amore mio, anche tu devi saperlo…ricorda che io vi ho sempre amato. Amore mio, addio.”
Scrisse, lasciò il foglio sul tavolo, si vestì. Prese una valigia che fu riempita non di abiti ma di foto. Avrebbe preso il primo treno che passava e nel treno avrebbe pensato il modo con cui morire facendolo sembrare un incidente. Indossò il giubbotto e prima di aprire il portone di casa volle aprire la camera dove dormiva il sangue del suo sangue. Li guardò uno ad uno pensando che se gli angeli dormissero sicuramente durante il sonno avrebbero avuto lo stesso volto dei suoi figli. Il piccolo Mattia era abbracciato alla sorella maggiore Giulia. La dolce Ilenia dormiva stringendo un libro sotto le coperte. Il combina-guai Gianni russava sul suo letto con indosso ancora gli occhiali da vista, storti sul suo naso. E la piccina Elisa stringeva il suo orsetto.
Li baciò con il pensiero e poi decise di andare. La città era ancora avvolta dal buio mentre l’orologio, imperioso sulla piazza, diceva che ore fossero: le 4.30. Dario vagabondò per le strade. Andò sul ponte e guardò il fiume. Andò davanti al duomo e parlò con le statue. Parlava del suo dolore, chiedeva se loro ricordassero quegli anni lontani quando era fidanzato e spensierato. Parlò di Lucia e della sua bellezza. Parlò dei suoi figli e delle loro marachelle. Parlò con i fantasmi del suo presente che come diabolici spettri gli stringevano il collo. L’orologio avvertì che erano le 5.00, però Dario voleva dire, confidarsi, piangere. L’orologio allora informò l’uomo che un’altra ora era già passata e che erano arrivate già le sei della mattina. Gli occhi azzurri di quel padre guardò il sole sorgere e si fece coraggio. Andò alla stazione senza biglietto e senza documenti. Guardò gli orari dei regionali. Uno doveva passare dopo circa un quarto d’ora.
Andò al binario. Si sedette e osservò quelle poche persone che partivano così presto. Si sedette pesantemente come se le sue preoccupazioni, attorcigliate alla sua persona, lo tenessero prigioniero e lo trascinassero verso gli inferi. “Eccolo”- pensò mentre vide arrivare il treno. Sembrava un automa pronto a salire su un mezzo che l’avrebbe portato non si sa in quale città, ma sicuramente verso quella triste destinazione che egli si era predestinato.
Ma una voce nella nebbia lo svegliò. La voce di una ragazzina, dall’altra parte, sul binario opposto, dietro il treno. Allora lui si fermò. Le palpitazioni del cuore si bloccarono per poi riprendere accelerate. Gli occhi disorientati guardavano il treno e il proprio udito cercava quella voce come un neonato che cerca il seno della madre. Lasciò che il suo treno se ne andasse senza di lui. E la vide. Ero io. Ero io che gridavo: “Papà, papà!”. Ero io che urlavo: “Non te ne andare.” Ero io, sua figlia, Ilenia, pronta a fermare il proprio padre.
Forse quella mattina mio padre pianse. Forse guardando la mia figura esile nel freddo di quella stazione, che con nulla diveniva complice del rapimento di anime, mio padre ritrovò la speranza. Eravamo lontani, i binari ci separavano, ma i nostri occhi lucidi e gonfi si guardarono a lungo come se parlassero un linguaggio tutto loro. Erano i nostri cuori che parlavano attraverso gli sguardi. Mio padre chiedeva perdono, io chiedevo nessun abbandono, lui chiedeva amore, quell’amore che io gli dissi fissandolo e dimenticandomi del mondo: “Papà, ti voglio bene, torna a casa.” Lui sorrise, il sorriso commosso di un uomo che prese la sua valigia per tornare alla sua vita, da sua moglie e dai suoi figli.