Era sempre la stessa storia nell’ ora d’ italiano. In quinta ginnasio, il giovedì, la De Francisci faceva leggere a turno a ciascuno degli studenti I Promessi Sposi. La mia compagna di banco si chiamava Donatella ed eravamo diventate inseparabili; passava la maggior parte dei pomeriggi a casa mia e molto spesso se ne andava tardi quando i lampioni in strada erano già accesi. Quel giorno guardavo fuori dalle finestre senza nascondere la voglia di essere in qualunque altro posto che non fosse quell’ aula. La pioggia che cadeva sui tetti, sull’ asfalto e sulle macchine, il vento feroce che muoveva tutto erano meglio del niente che attraversava l’ aula. In giornate come quella mi nutrivo a forza di sogni: il sole d’ un giallo splendente, un prato di pansé viola con eleganti screziature dorate e l’ altalena in ferro rosso magenta; il fior fiore della mia infanzia. Preferivo la testa tra i sogni perché non sopportavo a scuola la tristezza del neon attaccato al soffitto. A volte credevo di dover sopportare l’ insopportabile finché non sarei arrivata agli esami di maturità. Fissavo a lungo quel neon come a volerlo sfidare fino a quando non ci vedevo più e poi continuavo a guardare i flash multicolore proiettati sui muri bianchi. Era un modo assolutamente scriteriato per far passare il tempo in classe. Menomale che quella tristezza così come veniva, se ne andava senza lasciare traccia, senza un biglietto o un indizio su dove sarebbe andata.
Si apriva il sipario e iniziava la lettura. Per non sovraccaricare gli zaini all’ inverosimile, ci dividevamo i libri. Quella volta portò lei il volume del Manzoni che avremmo dovuto aspettare ad aprire perché la fretta è sempre un gran nemico. Con le due teste una a fianco all’ altra, stavamo perlustrando da cima a fondo il capitolo XXIII cercando disperatamente ciò che si stava leggendo: “ Ma c’ era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente…” Parole introvabili che impennavano diventando cime irraggiungibili.
Ben presto, si presentò davanti a noi quello che non potevamo immaginare; ci rendemmo conto di essere finite nel capitolo sbagliato. Cosa ci facevamo lì? Scoppiammo a ridere in modo vergognoso. Notavamo con la coda dell’ occhio che la De Francisci ci guardava ma noi evitammo accuratamente di ricambiare lo sguardo. Se sapevamo evitare l’ occhiata della professoressa, non sapevamo, invece, smettere di ridere. Avevamo attirato l’ attenzione di tutti i compagni come se la nostra risata fosse qualcosa di speciale e per il fatto che continuavamo a ridere senza freni, senza ritegno e non c’ era la minima disposizione d’ animo a ritornare serie.
“ Russo e Zappalà!” marcò la De Francisci assumendo un atteggiamento infastidito. Ci chiamò per nome con un tono di rimprovero che si fermò con maggiore forza sull’ ultima sillaba accentata. Facevamo pietà a noi stesse per quanto avevamo riso; forse apparivamo divertenti ai compagni ma eravamo a pezzi. Soffrivamo entrambe, avevamo trascorso una mezzora da incubo per non riuscire a smettere. Oddio, un’ intera mezzora! Poi, tutte e due, quasi nello stesso tempo, cercavamo di calmarci. Sedute in prima fila dove non c’ era via di scampo, eravamo imbarazzatissime ma non perdevamo la speranza perché in qualche modo ce la saremmo cavata. Ad un certo punto, come per miracolo, cominciammo ad intuire in quale capitolo dovevamo spostarci, consapevoli che per noi un capitolo o un altro non faceva nessuna differenza. Sfogliammo pagine e pagine fino a giungere nel capitolo XXI con la tipica disinvoltura di chi tuttavia fa finta di niente. Feci scorrere l’ indice sul quinto rigo della pagina 628 e finalmente eravamo nella pagina giusta, ci sentivamo rinfrancate.
Perseguitata com’ ero dall’ irrefrenabile risata e vinta nettamente dal rossore che m’ infuocava le guance, respirai a fondo e cercai di riprendermi. Donatella con la cera di chi non ha dormito più di un’ ora a notte da sette giorni, si rimise in ordine i capelli e mi fissava intensamente negli occhi implorandomi, quasi, di smetterla. Senza dire parole. Fu così che, a furia di fissarmi con la forza convincente del suo sguardo accigliato, cessai di ridere. Per un attimo un sospetto indebolì lo sguardo dell’ amica; mi domandai come mai fosse così arrabbiata con me se era stata lei la prima a ridere.
Sette alunni, dovevano ancora leggere. Solo sette allievi e la promessa che facemmo guardandoci in faccia di non perdere del tutto il controllo. Dovevamo convincere prima di tutto noi stesse di potercela fare e non avevamo alcuna possibilità di saltare il proprio turno di lettura.
Era appena cominciato lo sforzo penoso di ritornare serie, quando la De Francisci scelse Donatella per leggere e, non so perché, le mie mani incominciarono a sudare. Temevo di scoppiare di nuovo a ridere se solo si fosse schiarita la voce. Di punto in bianco, però, mi sentii incoraggiata dalla stessa paura che ci faceva complici, dalla promessa fatta e dall’ altruismo. Non potevo farle fare brutta figura! La sua “ esibizione” dipendeva al cinquanta per cento da me e dovevo inventarmi qualcosa. Dei pensieri che mi obbligassero a non ridere, almeno cinque minuti. Se le avessi riso addosso mentre leggeva, avrei potuto perdere la sua amicizia. E tutto questo solo perché non ero capace a trattenere delle risate? Lei si girò verso di me, avvertiva il mio forte ansito. Mi fece col capo un cenno di assenso, a voler dire “ Mi fido di te”, e iniziò a leggere con un tono rassicurante. La sua buona lettura rappresentò tanto a me, quanto all’ insegnante e ai compagni la conferma meravigliosa del sapersi dominare. E, intanto, io avevo bisogno di uscire dall’ aula e scappare di nascosto lungo i corridoi della scuola. Quando sarebbe toccato a me, la De Francisci non mi avrebbe trovata e avrebbe fatto leggere qualcun altro. Volevo alzarmi ma il buon senso me lo impedì e restai seduta con la brutta sensazione di morire soffocata dalle mie stesse risate.
Erano diventati quattro nel frattempo gli studenti che mi separavano dalla mia “ performance”. Solo quattro dovevano ancora leggere e potevano sembrare tanti ma anche troppo pochi. Ventidue la stessa cosa. Era una questione di punti di vista. Quattro, un numero che mi tolse energia nel giro di pochi minuti. Quando toccò a me, mi sforzai di avere fiducia in me stessa e cominciai a leggere con foga. Ma, come in preda a un sortilegio, via via che leggevo, sfumava la certezza di farcela; o meglio stava a metà tra il riuscire a leggere e il non riuscirci. È stato proprio in quell’ istante che ho pensato a quanto, a volte, sapesse essere cattivo il destino. Solo a volte, però. La cosa più stupefacente e, che nessuno avrebbe mai immaginato, fu che interpretai quel testo manzoniano con un ridacchiare così insistente che in disaccordo col mio consueto pudore, si lasciò andare in tutta la sua potenza. Ero sfinita, sentivo addosso il peso attaccaticcio di tutte le risate. Dovevo essere diventata troppo rossa perché a un certo punto Donatella mi chiese se stavo bene.