- Signori, eccomi con voi, per la terza e ultima volta, a parlare, se possibile in modo più originale, delle caratteristiche delle lingue esaminate.
L'esame dei vocabolari fondamentali delle lingue considerate ha portato all'individuazione di alcune caratteristiche delle lingue stesse, che ritengo interessante commentare brevemente. Tali caratteristiche sono: presenza di affissi; rapporto tra vocali e consonanti nella fase orale; aderenza della pronuncia alla scrittura; presenza di suoni indistinti; lunghezza della scrittura; lunghezza della pronuncia.
Per quanto riguarda gli affissi (prefissi, infissi e suffissi) si può notare che le quattro lingue non indoeuropee considerate (arabo, basco, ebraico e turco) sono di gran lunga le più sintetiche, cioè ricche di affissi, e che, all'interno del gruppo indoeuropeo, gli affissi (ridotti ormai quasi solamente a suffissi) diminuiscono grosso modo di pari passo con la modernità e/o con la maggiore diffusione della lingua. Si deve osservare che, accanto all'esperanto (lingua artificiale, di proposito interamente analitica, cioè senza affissi) , le uniche lingue che riescono ad esprimere un carattere completamente analitico sono il francese e il portoghese.
Quanto più è elevato il numero di vocali pronunciate rispetto al totale dei fonemi emessi, tanto più una lingua può essere considerata "morbida", e quanto più questo numero è basso tanto più la lingua è percepita come "dura" . Solo due lingue (l'arabo e il rumeno) hanno, nella pronuncia, una preminenza delle vocali sulle consonanti, mentre una sola (il basco) le ha presenti in modo equo. Le lingue più "dure" sono il catalano e l'ebraico. Le lingue più diffuse si trovano in una fascia che va dal 45 % di vocali (spagnolo) al 49 % (inglese e russo) .
Esiste una correlazione di natura psicologica tra la "durezza" o "morbidezza" delle lingue e il carattere dei parlanti? Probabilmente sì. Ad esempio lo spagnolo e il portoghese, due lingue molto simili, ma con percentuali di vocali abbastanza diverse (45 % per la prima e 48 % per la seconda) , sono, anche da parte di un orecchio inesperto, facilmente distinguibili per le loro differenze di pronuncia (un detto popolare vuole che il portoghese non sia altro che lo spagnolo annacquato dall' Oceano Atlantico) , che forse si ripercuotono anche sul carattere degli abitanti (nelle corride, ad esempio, gli Spagnoli, più "duri" , uccidono il toro, mentre i Portoghesi, più "morbidi" , si accontentano di immobilizzarlo) .
Una delle principali difficoltà nello studio delle lingue è quella di saperle leggere agevolmente e correttamente. Di solito, col passare del tempo, la forma scritta di una lingua rimane pressoché invariata, mentre quella orale si evolve, distanziandosi dallo scritto quanto più la lingua è parlata e diffusa nel mondo.
E' naturale che il francese e l'inglese siano le due lingue con minore aderenza della pronuncia alla scrittura. Per esempio l'inglese, che evidenzia un'aderenza del 49 % , ha, tra le parole che lo rappresentano adeguatamente, "same" ( 'séim' ) : dei quattro fonemi pronunciati, solo due, 's' e 'm' , coincidono, nella stessa sequenza, con i grafemi della fase scritta. Quindi questa parola riflette se stessa passando dallo scritto all'orale (o viceversa) soltanto al 50 % .
Per l'arabo e l'ebraico va notato che le aderenze sarebbero state maggiori di quelle rilevate se avessimo scritto le loro parole anche con le vocali "secondarie" (abitudine questa diffusa però solo nelle scuole primarie) .
Il termine "schwa" (suono indistinto) trova la sua origine in una radice ebraica dal significato di "cosa da nulla" .
In generale si può osservare che le lingue nate e sviluppatesi in riva al mare hanno un numero di "schwa" molto maggiore di quello delle lingue "continentali" , che spesso non ne hanno affatto.
La presenza di suoni indistinti, quanto più è elevata, potrebbe sottintendere una maggiore flessibilità della lingua nell'adattarsi alle situazioni da descrivere. Le vocali indistinte sembrano avere in pratica la funzione dell'olio, capace di attutire frizioni ed evitare scontri. Tutto ciò potrebbe indicare una maggiore elasticità mentale dei popoli che usano parole con gli "schwa" ? Forse non è un caso che gli "inventori" degli "schwa" siano stati gli Ebrei, che probabilmente anche grazie a tale espediente linguistico sono poi riusciti a distinguersi in tanti settori dello scibile umano.
Quando la percentuale di "schwa" comincia ad essere troppo elevata (come in catalano e in napoletano) , invece, forse si può intravvedere un'eccessiva indeterminatezza ed una sorta di anarchia (anche se spesso istituzionalizzata) nel carattere di coloro che ne fanno uso. Per quanto riguarda Napoli, posso affermare che la presenza di molti suoni indistinti nel dialetto si accoppia, almeno per me, alla sensazione di vivere in una specie di liquido amniotico, dove tante cose appaiono prive di un contorno definito, dove gli estremi si confondono fino a combaciare a volte, dove la legalità è spesso sopraffatta dall'illegalità e dove forse, anche volendolo, non basta una vita per imparare a muoversi con la certezza di non sbagliare.
Facendo, per le 500 parole esaminate in ogni lingua, la media delle loro lunghezze espresse in lettere dell'alfabeto (compresi gli accenti e i segni grafici di ogni tipo, cui però ho dato il valore soltanto di mezza lettera) , è stata ottenuta la lunghezza media di una parola scritta, relativamente alle singole lingue.
Le due lingue semitiche (che si scrivono, praticamente, senza vocali) sono, per forza di cose, le più brevi dal punto di vista grafico. Anche il danese, l'esperanto e il catalano realizzano una notevole economia, mentre le lingue direttamente "figlie" di quelle classiche (il greco moderno e l'italiano) non si risparmiano nell'uso di mezzi grafici. Tutte le altre lingue hanno una lunghezza media della parola scritta compresa tra 5,6 e 5,9 lettere dell'alfabeto.
Credo che ci sia un'analogia fra la fase scritta delle lingue e il sistema legislativo in vigore nei Paesi in cui esse si parlano, cioè che più sono lunghe le parole scritte di una lingua, più è corposa la legislazione di quel Paese. Casi estremi possono essere rappresentati dall'Italia e dai Paesi Arabi. L'Italia, che ha una lingua "lunga" , è la patria del diritto romano, che a volte può tradursi in una burocrazia esasperata. Nei Paesi Arabi (in cui la lingua usata si scrive con molta parsimonia) , al contrario, l'unica fonte legislativa è costituita dall'interpretazione del libro sacro del Corano.
Facendo, per le solite 500 parole esaminate in ogni lingua, la media delle loro lunghezze espresse in fonemi, è stata ottenuta la lunghezza media di una parola pronunciata, relativamente alle singole lingue.
La lingua con una maggiore economia fonetica è di gran lunga il francese, seguito dal danese e dal catalano, che già erano stati segnalati per la brevità delle loro forme scritte.
Come per la scrittura, anche per la pronuncia si distinguono per la loro prolissità le lingue direttamente derivate da quelle classiche, con una parziale eccezione per il greco moderno, che presenta una lunghezza media delle parole pronunciate abbastanza nella norma.
Ma la lingua con la fonetica più elaborata è il russo, che (come l'inglese, del resto) dittonga nella pronuncia molte vocali. Il russo è anche l'unica lingua (insieme all'arabo e all'ebraico) ad avere, sia pur di poco, le parole orali con un numero di fonemi in media superiore a quello dei grafemi delle parole scritte. Le altre lingue, una volta pronunciate, realizzano un'economia rispetto alla loro fase scritta, ma questo fatto è estremamente evidente solo nel francese: una parola fondamentale francese scritta possiede in media 5,7 grafemi, una pronunciata soltanto 4,0 fonemi!
Credo che la minore lunghezza delle parole orali in una lingua sia direttamente proporzionale alla maggiore capacità, da parte dei parlanti, di sapersi muovere agilmente nella vita pratica di tutti i giorni. La Francia ha saputo trarre profitto dalla Rivoluzione del 1789 (che ha inciso parzialmente anche sulla lingua) , semplificando notevolmente il suo sistema giuridico e la sua burocrazia. La Russia, al contrario, forse per il retaggio di continue introspezioni psicologiche (testimoniate abbondantemente dalla sua letteratura) e per la persistenza di una tradizione greco - ortodossa e bizantina, non è riuscita a snellire il suo apparato burocratico nonostante la Rivoluzione del 1917, e in questi ultimi anni sta gestendo con notevoli difficoltà il passaggio a un regime democratico.
A proposito della lunghezza delle parole (orali ma anche scritte) vorrei fare un'ultima considerazione. Sembra che spesso la relativa brevità di una parola denoti il maggiore uso che di essa si fa in una determinata lingua. Si pensi, as esempio, per l'italiano, al "cinema" , nato "cinematografo" appena esso fu inventato e quindi quando era una parola riservata a poche persone appassionate e competenti, ridotto spesso a "cine" nel linguaggio familiare soprattutto nel primo periodo del secondo dopoguerra, quando era il divertimento preferito degli Italiani, perché ancora non insidiato dalla nascente televisione, e tornato a "cinema" negli anni successivi, quando le sale di proiezione cominciarono a perdere clienti ed alcune furono anche costrette a chiudere (cfr. E. De Felice, "Le parole d'oggi" , Mondadori, 1984) .
Tale riflessione, pur se con molte precauzioni, si può forse estendere anche allo studio delle diverse parole che, nelle varie lingue, indicano lo stesso oggetto o lo stesso concetto: più sarà breve la parola e più il significato che essa esprime sarà familiare in quella determinata lingua. Vorrei fare un ultimo esempio. Colpisce, nell'ambito delle lingue neolatine, la derivazione alquanto concisa, dal tardo latino "caballus" , del rumeno "cal" , nei confronti delle parole delle lingue sorelle, che hanno più o meno una forma lunga quanto l'italiana "cavallo" . Ebbene, consultando un qualunque atlante, si può scoprire che ancora oggi i Rumeni sono molto più legati a quell'animale che gli altri popoli neolatini (ne hanno uno ogni 37 abitanti, contro uno su 150 degli Spagnoli, uno su 174 dei Francesi, uno su 232 degli Italiani e uno su 345 dei Portoghesi; cfr. il "Calendario Atlante De Agostini" , 1987) .
Signori, vi ringrazio infinitamente per avermi seguito anche in questa terza e ultima giornata. Non sono mai stato un professore universitario, e perciò per me il piacere di aver potuto fare questa conferenza, che è stata possibile grazie alla compiacenza del professor Dosil, è stato immenso. Vi saluto e vi dico: addio!