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Caffè

Amore

Profumo di caffè nell’aria, piatti ombrati dal logorio di ripetuti e sempre soliti lavaggi che non sembrano togliere le impronte di mani, migliaia, che si sono sovrapposte come a tendersi un’invisibile testimone di un tempo che non conta le ore, che non segna i giorni e le stagioni. Qui a guardare i segni di un rossetto su bordi vitrei della vita che scorre ogni giorno lo stesso di ieri, gli stessi movimenti che si rivolgono in modi affettati verso le solite facce che si avvicendano a gesti consoni e conosciuti di una routine cittadina che ci veste la pelle e ci copre ogni ormai dispersa nudità che è stata svelata, distorta, appiattita e mai più riconoscibile agli occhi, compresi quelli meno ingannabili di ogni personale specchio cui poter raccontare una semplice bugia su se stessi.

Un semplice rosso colore che squarcia la foschia del bianco e del grigio di questi metri quadri del mondo sono note di un pianoforte che risuonano ad libitum a riportarci verso lidi della vita che non vorremmo mai dimenticare, paesaggi edenici a contorno d’ogni frammentario ricordo del tempo e che riflettono uno sfondo che non si vuole mai cambiare, mai cancellare dalla lavagna dei nostri perché, delle nostre inconcludenti promesse che ingannano l’amor proprio. Il vetro incolore macchiato del colore di donna si riflette sulle vene d’un tavolo che del legno non ha più che un vago ricordo, ricordo… ancora ricordo…

Piove ancora, lacrime di cielo rigano i vetri del tempo.

La pioggia ci accompagna come il bel tempo e scandisce i ritmi dei nostri orologi che si sintonizzano all’unisono sempre sul versante ricolmo dei nostri intensi sguardi, del nostro tendersi le mani che non possono essere slegate, non vogliono esser che toccate da altre dita cui donare il gioco dei propri intensi movimenti, dieci rami contorti e forti che si vestono di foglie verdi allo sbocciare di un amore, che si svestono delle gialle foglie alla morte di un amore: un segno sul legno rimane sempre, sempre su di esso rinasce un nuovo fiore.

Le tue dita, le vedo ancora su questo quadrato plastico che mi chiedono d’esser prese, affusolate e ricche di sensuali impercettibili movimenti che parlano di come sei, di come eri, che cosa siamo ora?

Mi dicevi sempre che non avremmo lasciato al caso i gesti rituali dei giorni, mai avremmo lasciato prenderci in giro dal ripetersi dei giorni che diventano monotonie che appianano una melodia ricca di sfumature, di righe pentagrammate che devono ancora esser scritte, ancora richiedono tempo per essere eseguite, ascoltate, suonate.

E cosa ci faccio qui, cosa faccio seduto su questo stupido tavolo di plastica dura di fronte ad un vetro che guarda il mondo dietro il riflesso liquido che cade dal cielo, liquido pensiero che riga il viso scavando solchi abissali di vuota emozione che si è dispersa come goccia a terra ogni volta che lei se ne è andata, ogni volta che lei si è alzata da questa sedia di fronte, ormai vuota, per lasciarmi a guardare da solo il vuoto posto nel mondo che m’appartiene più dell’essenza di un barattolo perso e rotolato via, tra un calcio e uno sguardo buttato al contenuto svanito che non è più, non è più emblema d’unione tra un contenuto e il suo involucro d’amore: noi due un barattolo pieno e non ammaccato che il tempo ha svuotato e diviso.

Se avessi fatto, se avessi detto, se fossi stato… Non lo sono mai stato! Ma cosa ci rende così fottutamente animali per il resto dei giorni avvenire, lupi mannari che bramano la preda e quando l’hanno avuta la lasciano cadere a terra tra le smisurate cose già possedute, mangiate, disperse…dimenticate?

Quando eravamo giovani eravamo uomini, coi modi del fare umano, con i gesti tipici dell’umano innamorato, maschio galante che inebria l’aria del profumo che trasporta il vento incessante delle donne che attirano gli occhi, come i tuoi che si son fermati quel giorno inaspettato, tra una sigaretta da poco accesa e mai tirata a consumare ossigeno nei polmoni inermi, fermi di respirare anche loro attenti al passare di una meraviglia naturale che ha impregnato lo spazio vitale dei miei sensi.

Era inverno quel giorno, grigio e nebbioso inverno anche tra i pensieri che scivolavano giù nel fumo caldo del caffè che non aveva l’aria d’esser bevuto.

Sei entrata dalla porta e quella era la mia vita, persa dietro i rivoli del tempo che inseguiva i fragili sogni affamati di una vana gloria che non poteva essermi compagna, se non di fame e di sigarette smozzicate da posa ceneri ancora troppo vuoti per esser ritenuti tali.

Sei entrata lì, proprio in quel viatico di niente e la strada ai tuoi piedi si è spianata, come gli occhi, i miei, che grigi e inespressivi incolti di barba mal tagliata si sono accesi del colore ch’emanavi intorno. Non potevi essere un miraggio, non potevi esser stata eterea come la nebbia ai miei polmoni, per non sentir il sofferente caldo che lascia il peso di un’assenza che è più piena d’ogni mia insignificante presenza che non riesce a contar i giorni, perché il domani torna al giorno ch’era ieri e ieri torna indietro ancora fino al bambino ch’ero, sino al fanciullo di fasce che con te mi sono scoperto d’essere come un otre il cui destino è saper di crescere con del vino che verrà a riempirne i sonori spazi di un nulla che esiste perché c’è un’essenza.

Quella porta, sacro varco dà e per il mondo, fece entrare l’essenza del mio vuoto sentire, del mio vagar senza meta dietro cose che non volevo avere e che non eran gli specchi esatti del mio vedermi umano rivestito di normale equilibrio.

Ti ho guardata intensamente e mai ho lasciato cadere gli occhi dal tuo fiero porti dinanzi al mondo, ancor ti guardo e penso esattamente quel che allor pensai: svuotato eviscerato di me mi sono accorto dell’universo che più non girava che più non si espandeva senza saper che ci fosse una stella fissa cui far girar dei pianeti, scudieri amanti di un fuoco eterno che semplicemente potevi chiamar emblema del bello ed io mi sono inaspettato esser improvviso satellite rivestito d’un mantello freddo acquoso da dover esser da te riscaldato.

Siediti, siediti, non andar via da questo triste bar di periferia perché ci son io, sono io proprio io la persona che al mondo cercavi, colui che darà un senso pieno al tuo pensare, la parte maschile che completa la presenza al tuo fianco e già mi vedo tale, fiero uomo di esibir cotanta bellezza, già vedo film indescrivibili al pensiero attuale,

di case e camini, tappeti bagnati dal nostro sudore, orme impresse sulle rive di spiagge lontane a cercar un panorama migliore per il nostro suggello e per il nostro intrecciar di mani e corpi che non possono esser soli.

Un caffè bevesti al banco di quell’inutile bar, un caffè ti fermò nel tempo dei miei mutanti minuti che si fecero eterni quando la testa voltata dietro te si accorse di quell’inutile me, dell’imbarazzato sguardo degli occhi che erano i miei.

Il vento soffiava dal mare, il vento soffiava il ricordo che oggi mi lascia ancor solo a guardare il cielo che ti ha visto camminarmi a fianco in un insignificante lasso di storia d’un inutile tempo che mi racconta.


Andrea D’Alfonso 09/01/2011 12:52 1 1540

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Commenti sul racconto Commenti sul racconto:

«neanche una virgola è lasciata al caso in questo racconto egregiamente scritto e sviluppato fin nelle pieghe più profonde del sentire.
totalmente catturata...»
radicedi64

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Un sogno o realtà? Cmq un bel narrare. Poetico! (Vivì)

Grazie per la piacevole lettura. (Vivì)

bel racconto Andrea (Claudio Giussani)

affascinante racconto...complimenti!!! (leica elena)



Andrea D’Alfonso ha pubblicato in:

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