Silvia si svegliò che albeggiava appena. Dalle imposte ancora accostate filtrava la prima luce del giorno, disegnando sulla parete di fronte una miriade di piccole schegge in movimento. Doveva esserci un po’ di vento, là fuori, si disse, e i grandi alberi del giardino si divertivano a nascondere il sole e poi a liberarlo, coi loro lunghi rami oscillanti.
Nel silenzio di quell’ ora ancora addormentata, si sentivano solo gli uccelli, già impegnati nel loro fitto chiacchiericcio.
-Cosa avranno da dirsi a quest’ ora? – pensò e sorrise tra sé di quella domanda senza logica e che pure le era venuta in mente con tanta naturalezza. Richiuse gli occhi e si mise in ascolto, cercando di far confluire tutti i suoi sensi su quel canto e sulla natura che si svegliava al di fuori di quella stanza.
Gradualmente andavano scomparendo agli occhi della sua immaginazione tutti gli oggetti presenti nella camera e che normalmente poteva vedere anche senza bisogno di posarvi su lo sguardo: il letto in ferro battuto, i comodini e il comò di vecchio, caldo ciliegio e la bella lampada a stelo, alta e stilizzata, che aveva preteso di acquistare a Praga, malgrado il prezzo altissimo. E poi tutto il resto: la consolle col computer, la libreria a muro, lo stereo e le innumerevoli altre belle cose, che era riuscita a sistemare (miracoli della volontà strenua e indefessa, diceva sua madre) in quella cameretta, tutta sua, solo sua, indiscutibilmente sua.
Cercò di annullare ogni altro pensiero che non fosse cielo, vento, alberi, erba, e per riuscirvi si concentrò sul ritmo lento del proprio respiro, accompagnandone con la mente il dolce fluire, attraverso le narici e poi giù nella gola, a riempire i polmoni, gonfiandole il petto per sentirlo risalire, dopo una breve pausa, con la stessa lentezza, e ripercorrerla di nuovo, per svuotarla infine delicatamente.
Ora che tutt’ intorno c’ era un buio assoluto senza immagini, il suo animo poteva aprire gli occhi all’ esterno e immergersi totalmente nella natura, con quel sovrasenso che aveva imparato ad utilizzare in momenti speciali, come quello.
Le pareva di essere filo d’ erba e sentiva forte su di sé il soffio del vento fresco, che la piegava, facendola ondulare insieme agli altri steli, come in una danza unisona; e il prato, visto dall’ alto, somigliava ad una distesa verde ondeggiante, e in questo ondeggiare mutava colore, facendosi ora più chiaro ora più scuro nel suo alterno andirivieni.
Diveniva poi albero e si scopriva vivo e sensibile nell’ apparente immobilità del grande tronco. Con le radici ritorte, infisse profondamente nel suolo, poteva percepire la calda umidità del terreno e ne succhiava pian piano le linfe vitali, spingendole su, nei rami e nelle sottili venature delle foglie. Avvertiva sui suoi ramoscelli più esili le zampette degli uccelli, che si tenevano in equilibrio, muovendo a scatti le piccole teste e cinguettando tra di loro, in lunghe conversazioni, intercalate da improvvisi voli e repentini ritorni.
Interruppero le sue fantasie metamorfiche i noti rumori del mattino in casa. Sua madre preparava il caffè giù in cucina e tra poco se ne sarebbe sparso dappertutto il buon aroma. Ora la luce penetrava nella stanza con più decisione e sulla parete opposta alla finestra riacquistavano i loro contorni abituali gli oggetti amati, accumulati un po’ in disordine sugli scaffali della libreria a muro.
Dal ripiano più basso, il vecchio Bart Simpson la guardava allucinato coi suoi occhioni fosforescenti, la pesante testa gialla piegata sulla pila di cd un poco impolverati.