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Nacqui in una giornata di fine Maggio, l'aria era tiepida nel vicolo, il profumo delle rose si avvertiva come non mai, erano le otto di mattina e le voci nel vicolo cominciavano a prendere corpo insieme alle persone. Donna Francesca la levatrice, era stata chiamata già da tempo, mio padre corse da Lei, su richiesta vivace di mia madre: "corri va a chiamarla, è arrivato il momento". Si affrettò venendo di corsa, ordinò che si mettesse acqua sul fuoco da riscaldare, poi si affrettò ad aprire le gambe di mia Madre. Ero quattro chili e mezzo alla nascita, un bel pezzo di giovanotto. Tutti mi dicono che somigliavo al figlio di un tedesco, avevo capelli biondo cenere, alla nascita mi dicono che strillavo tanto, si, forse lo facevo davvero, lo strappo forte da una vita all'altra mi era costato molto: "Ecco il pianto continuo e il primo provare quel sentimento di perdita che è universale: L'angoscia della nascita". Poi, iniziò la processione delle visite, cominciai a passare di braccia in braccia delle visitatrici, un modo per presentarmi alla comunità del vicolo. Appesero un grosso nastro celeste alla porta di casa e subito mi diedero il nome. Nome che ho sempre pensato non mi appartenesse, mi chiamarono Pasquale, in onore di mia nonna Pasqualina, nonna paterna che morì sotto i bombardamenti degli aerei nella guerra del quarantatrè. Fortunatamente mia cugina Pasqualina, che quotidianamente mi faceva visita, mi chiamò subito Pasqui, ancora sento il suo dolce chiamarmi, e le parole che soavi fuoriescono dalla sua bocca. Crebbi triste, e non so il perché, crebbi cercando amore già dai primi battiti del mio cuore. Germogliai in fretta nel vicolo, tra ragazzine magre e scugnizzi, tra alzate di spalle e sofferenze. Non sapevo ancora chi ero, non sapevo ma intuivo la vita. Le mie comunicazioni con gli altri erano istintive, era come se al mio posto parlasse qualcuno già nato e rinato, qualcuno che aveva già vissuto tanto tempo prima, in quel vicolo senza sole. Abitavo in un basso, unica stanza, con letto al centro, cucina ai lati e vari piccoli mobili di abbellimento. Le mura erano umide, e la mattina ci si svegliava gonfi, sembravamo dei pugili appena usciti dal ring. Altri tempi, magri tempi, dove la parola ricchezza era inesistente. IL vicolo dove sono nato si chiamava Vico Ventagleri, non so ancora il perché di quel nome, ma qualcuno mi dice che tanto tempo prima c'erano delle botteghe di ventagli, può essere, chissà. Ora non esiste più, hanno smantellato tutto da un pezzo, al posto del vicolo sorge, ora, una scala mobile che porta in collina. Così fu smantellata anche la mia infanzia con il mio principesco palazzo, ma questa è un'altra storia. Un giorno ve la racconterò. Allora ero piccolo, ora penso non solo come età di tempo, ma anche come età vissuta di esperienze e di conoscenza. Ma fra tutto questo divenire, diventare e soprattutto ribaltare le condizioni storiche e ontologiche familiari, una parte di me ancora vive nel vicolo, ricordando le scene, i personaggi e le storie susseguitesi nella mia vita senza sosta alcuna. Mi ricordo questo vicolo buio, ma abbracciato da tanto calore umano. Mi ricordo Ciuciù vendeva castagne, sembrava un indiana, portava sempre una fasciatura attorno alla testa, vendeva in gergo detto: "Palluottoli e castagnelle", dentro un "coppetiello " di giornali vecchi, e ad ogni stagione ci presentava i frutti correnti, come i fichi a Maggio, le noci a settembre, le ciliegie a giugno, e così via, a volte anche piccole rane spellate vendeva, che impressione. Ricordo Don Amedeo che vendeva panini e cioccolata, alla modica cifra di trenta lire, prendeva la cioccolata dal recipiente con un cucchiaione di legno: mamma mia, lo avrei ingoiato il cucchiaione della cioccolata che salivazione mi veniva. Poi ancora c'era Fiorenzano friggeva panzarotti e zeppolelle calde, quando avevo una lira non desistevo a comprarle. Poi Don Franco il cantiniere, dove mio nonno mi mandava ogni mezzogiorno a comprare mezzo litro di vino con dentro una gassosa, ancora sento l'odore del vino, e vedo la schiuma della gassosa. Gassosa che saliva dal secchio di alluminio schiumosa e frizzante... Il mio pranzo preferito era panino e mortadella, mamma mia che bello! Era all'epoca una prelibatezza, eravamo ricchi in qualche modo, tutto è ordine diceva S. Francesco, ed è vero! Ognuno ha la sua ricchezza. Ricordo ancora i soprannomi dei miei amici, non ridete però dei soprannomi che vi dico, sembra una squadra di pallone di vecchi tempi. Eccoli, sono:" il russo, il big, guerra, trabucco, generoso, coscia di pollo, un'altro lo chiamavamo pulicinella, un altro ancora maruzziello e così via. A Napoli allora come adesso c'era e c'è, la mania dei soprannomi, a me mi chiamavo il biondo! Mentre ad un mio cugino, mezza orecchio, eppure le orecchie le aveva intere, boh! Mi lascia pensare questo...boh! Invece i soprannomi femminili erano simpatici ricordo bambulella, Ninuzza, a zingara, a stecca, a corulella, cuncitinella, etc, etc. Il vicolo ancora vive in me con tutte le ragazzine, i ragazzini, le botteghe, le donne, le urla, gli strilli, i primi baci, i primi approcci, le lusinghe, i lasciti e gli incontri. Ancora vive colorato dalla mia immaginazione, vive come il primo nido dentro, anche se non assolato. Ricordarlo con i suoi personaggi e con rummori, ma soprattutto la emme doppia , è un piacere. Iescje sole, spacca e prete, dacce ammore
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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Brilla tra i vicoli di Napoli questo racconto! (Domenica Carrozza)
Uno sguardo al passato con tanta commozione... (Daniela Ferraro)
Gradevole lettura. (Daniela Ferraro)
Grazie della piacevole lettura. Molto apprezzata. (Vivì)
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