Quando ero militare, a Civitavecchia, esisteva un incarico che doveva essere ricoperto per due settimane, ogni volta da un soldato diverso: quello di rimanere la notte a dormire da solo in un locale chiamato "Cassa" . Era uno stanzone in cui venivano conservati, chiusi a chiave, importanti (almeno così si diceva) documenti dell'amministrazione militare; nel caso (molto improbabile) in cui il soldato, disarmato, avesse sentito dei rumori strani e sospetti, egli doveva semplicemente suonare un campanello: sarebbero immediatamente accorsi altri militi, armati, per provvedere alla bisogna.
Era difficile trovare dei militari che volessero fare questo servizio: il fatto di dovere rimanere da soli, di notte, in un locale "pericoloso" li terrorizzava. Io, invece, non vedevo l'ora di servire la patria in quel modo: appena me lo proposero, accettai molto volentieri. A parte i documenti segreti, nel locale si potevano trovare giornali, pubblicazioni dell'esercito, elenchi telefonici, da poter consultare liberamente, ed io, che non avrei voluto prestare il servizio militare, per una quindicina di giorni mi sollazzai a stare lì bello comodo, a leggere (prendendo spesso anche appunti) quello che mi capitava per le mani e a dormire tranquillamente (tanto avevo intuito che episodi spiacevoli non sarebbero mai accaduti...) : mi illudevo quasi di essere tornato a qualche mese addietro, a quella vita da studente universitario che tanto mi era stata congeniale.
Una volta, per dire la verità, sentii dei rumori sospetti, ma qualche superiore venne ad avvertirmi che non mi dovevo preoccupare, né tanto meno suonare il campanello: era il 1974, e seppi poi che quella notte era venuto in segreto, in quella particolare caserma, un importantissimo ministro di allora, per concordare con i generali lì presenti un piano atto a sventare un golpe che in quel periodo sembrava essere piuttosto probabile.
Ci rimasi male quando, dopo una quindicina di giorni, quel mio servizio alla "Cassa" finì, e non riuscii a capire le difficoltà che i tenenti incontravano per convincere un altro soldato ad entrarvi.
La claustrofilia (anche se la psicoanalisi la interpreta come un disturbo, come un insano desiderio di volere ritornare nel grembo materno, addirittura a volte come sintomo di una nevrosi ossessiva) è stata da me considerata sempre come un fatto normale. Non ho mai avuto paura degli ascensori e dei tunnel (almeno di quelli non troppo lunghi), ho abitato con disinvoltura in case piccole ed ho posseduto con piacere automobili utilitarie (non la vecchia " 500 " però, davvero troppo scomoda...)
Grandi scrittori furono, del resto, in qualche modo affini alla claustrofilia: Marcel Proust che scrisse sì un enorme romanzo ricco più di intere esistenze umane, ma rinchiuso nella sua famosa stanza tappezzata di sugheri; James Joyce che condensò le tante "avventure" del suo "Ulisse", Leopold Bloom, nell'arco di una sola giornata; il non tanto conosciuto (almeno in Italia) Georges Perec che, in un romanzo di quasi mille pagine, si occupò esclusivamente di tutto ciò che era successo, negli ultimi cento anni, ai trenta appartamenti, ed ai loro mutati abitanti, di un unico immobile parigino...
Credo che un uomo cui piace pensare abbia bisogno, ogni tanto, di rintanarsi in qualche spazio angusto, in cui i suoi pensieri non hanno possibilità di distrazioni, non corrono il rischio di fuggire, di volare nell'aria aperta, chissà dove, senza tornare mai più da chi li ha generati.