«Signo’, ‘ a Maronn ‘ e ll’ Arco!»
Ditemi, chi di voi non ha mai sentito questo richiamo? Si, dico proprio a voi che vivete nelle cittadine vesuviane che incoronano il monte Somma e nei comuni circonvicini. Voi, genti campane dell’ ampio territorio che spazia dal casertano al napoletano, fino al limite delle ville vesuviane perché, oltre questo confine, entriamo nel territorio di competenza della Madonna di Pompei. Questo invece è il richiamo tipico dei devoti ‘ e chella bella Mamm’ e ll’ Arco, la cui fama si estende per tutto l’ Agro nolano fino alle porte dell’ Irpinia, perché oltre ci addentriamo poi nei paesi che sono già sotto l’ egida della Madonna di Montevergine… E queste sono solo le più famose, perché in tutta la nostra bella Campania sono numerose le Madonne e Madonnine che vantano devoti zelanti e territori da proteggere.
Fin da bambina pensavo: « Ma come, ci sono tante Madonne che si fanno la concorrenza? E quale è la più importante?… Sicuramente la nostra! Cioè quella a cui si rivolge tutta la mia famiglia, quella che andiamo a trovare come fosse una vecchia parente… E poi la nostra, la Madonna dell’ Arco, ha la festa più spettacolare!». Come vedete, i pensieri di una bambina di ieri, o forse dell’ altro ieri, non sono troppo diversi da quello che esprime ancora oggi la gente più semplice. Oggi, da donna di fede e persona più edotta delle cose di Dio, so benissimo che la Madonna è una sola, differisce solo il modo di esprimerle l’ infinito amore e la profonda fiducia che ogni paesino, in ogni tradizione, ha sviluppato nel corso dei secoli. Non per essere nostalgica, ma quei luoghi che oggi caratterizzano la cosiddetta “ terra dei fuochi” per la particolarità dei veleni nascosti, fino ad alcuni decenni fa erano la Campania Felix, qualificata dalle molteplici tradizioni culturali e popolari legate anche alla venerazione della Beatissima Vergine Maria, Madre di Dio.
Ma io, da bambina, non pensavo a queste cose, non le immaginavo nemmeno. Tutto il mio mondo era quello in cui vivevo e che sperimentavo in ciò che mi piaceva molto o mi piaceva di meno. E quel richiamo, che talvolta si trasformava in cantilena, faceva parte di quel mondo.
Cominciava poco dopo Natale, quando l’ Epifania davvero portava via tutte le feste. In quel vuoto di magia, quando si spegnevano le luci del presepe che mi aveva fatto sognare storie incredibili di figurine di creta in una fiaba di sughero, i giorni si susseguivano proprio tutti uguali e le vacanze estive erano ancora troppo lontane. Poi, all’ improvviso, di domenica mattina venivo svegliata da quel richiamo lontano che iniziava in cima alla strada, giù per i vicoli, fino alla piazza del paese: «Signo’, ‘ a Maronn ‘ e ll’ Arco!». Era un annuncio pasquale, anticipo di primavera.
Erano per lo più gruppetti familiari, che poi si sarebbero riuniti in vere e proprie squadre o in confraternite, gente di ogni età: donne e uomini, alcuni bambini e bambine, tutti rigorosamente vestiti di bianco, maglietta e pantaloni per i maschi, gonna per donne e bambine, fascia rossa in vita e fascia azzurra che attraversava il petto da una spalla fino ad annodarsi sul fianco opposto con su incollata l’ immaginetta della Madonna dell’ Arco. Qualcuno andava scalzo, tutti a capo scoperto e senza indossare nient’ altro su quella divisa, qualunque tempo facesse. Mi colpiva molto il fazzoletto bianco tenuto per i quattro angoli, annodati a formare un sacchetto in cui venivano raccolte le offerte. Ciascuno, adulto o bambino, ne portava uno e lo scuoteva per farvi tintinnare le monete così da sollecitare ulteriori offerte. Mamma mi spiegava che quei soldini venivano portati alla Madonna e servivano per aiutare i vecchietti della Casa di riposo e per mantenere gli orfanelli che non avevano né casa né famiglia. E quelle erano persone comuni, uomini che durante la settimana andavano a lavorare, mamme che accudivano la famiglia, bambini che andavano a scuola e poi a giocare, e la domenica si trasformavano in “vattienti”, devoti zelanti della Madonna dell’ Arco e andavano in giro ad elemosinare offerte, ‘ a messa pezzuta, per chiedere a Maria una grazia o sciogliere il voto per un beneficio già ottenuto. E nessuno si tirava indietro, anche chi aveva poco o niente non lesinava mai uno spicciolo, alla Madonna non si diceva mai di no e lo si faceva con tutto il cuore. A nessuno veniva mai in mente che i soldi raccolti potessero essere utilizzati diversamente, che alla base di quel gesto ci fossero imbrogli o secondi fini. Come erano ancora lontani i tempi attuali in cui si diffida di tutti poiché si carpisce la buona fede di tutti, quando poi non si mette in dubbio addirittura l’ esistenza stessa di Dio e di tutto ciò che concerne il sacro. E il tutto diventa un pretesto per chiudersi nel proprio egoismo e diventare insensibili alle necessità del prossimo.
Per fortuna questi pensieri erano ancora sconosciuti alla mia infanzia, per cui posso vantare ricordi bellissimi e ricchi di sentimento. E tra questi, anche la mia breve avventura di piccola questuante. Mia mamma e una sua cugina erano molto angosciate per un’ altra cugina che soffriva da anni di una grave forma di esaurimento nervoso, quella malattia che oggi chiameremmo depressione profonda; la poverina si consumava già da qualche anno chiusa in casa sua, a letto giorno e notte, e non voleva vedere nessuno al di fuori della madre e del marito, nemmeno la figlia che era poco più grande di me la quale, poverina, stava crescendo come un’ orfana. La Madre celeste sembrava davvero l’ ultima speranza, così per alcune domeniche mia mamma e mia zia, insieme a papà, si trasformarono in mendicanti di grazie, fecero indossare anche a noi bambini il grembiulino bianco della scuola e una fascia azzurra, ci diedero un fazzolettino ciascuno annodato ai quattro angoli e percorremmo il paese lanciando quel richiamo che tante volte avevo udito dal balcone: «Signo’, ‘ a Maronn ‘ e ll’ Arco!». Avevo solo otto o nove anni e nella mia grande timidezza mi vergognavo a farmi vedere in pubblico, per me era uno sforzo esagerato, ma cominciavo a rendermi conto che quel richiamo era un grido di dolore, ora ne facevo esperienza diretta e potevo intuire anche la sofferenza di tante altre storie sconosciute nascoste dietro a quel rituale.
Al momento di completare il voto, noi bambini fummo esentati dal pellegrinaggio conclusivo, compiuto a piedi solo dai grandi. Il risultato? Qualche anno dopo, vuoi per le cure adatte o per il reale intervento della Madre Santissima, ma forse è più esatto dire per la giusta combinazione dei due elementi, mia zia era completamente guarita. Chella bella Mamm’ e ll’ Arco non aveva disatteso le aspettative dei suoi fedeli, meritava ogni devozione, anche quelle più plateali.
Sì, perché quello che colpiva la mia fantasia e segnava il mio animo, era la festa del Lunedì in Albis, quando squadre di vattienti si riversavano ancora più numerose di oggi nel grande Santuario. Per noi era un appuntamento imprescindibile, credo che i miei genitori avessero fatto un voto che riguardava proprio le mie delicate condizioni di salute nel primo anno di vita, ma sono stati sempre molto vaghi nel parlarne, forse per non turbarmi, ed io ho sempre rispettato questa loro delicatezza e non ho mai voluto approfondire la conoscenza di quei particolari, tanto non serviva, non aggiungeva niente di più all’ amore che ci univa tra noi e ci legava alla Madonna. Comunque una cosa era chiara: a Pasquetta si andava alla Madonna dell’ Arco o non si usciva affatto di casa; prima a salutare Maria e poi, per il resto della giornata, si potevano scegliere anche altre mete di svago.
Vi assicuro che per me quell’ ultimatum era un supplizio, lo vivevo con angoscia e tristezza, non mi piaceva la confusione che c’ era, la folla soffocante e, soprattutto, quelle manifestazioni esagerate di pathos dei penitenti che arrivavano di corsa e poi si lasciavano andare a manifestazioni emotive incontrollate, arrivando persino a svenire o a cadere preda di crisi isteriche. Stavo male, non mi piaceva che le emozioni fossero esibite in maniera così spudorata, ne avevo paura perché sentivo che mi avrebbero resa più vulnerabile e così cominciavo a maturare la convinzione che, per lottare ed affermare la mia personalità nella vita, dovevo racchiudere il mio cuore in una scorza dura come una roccia. Insomma, allontanavo da me i sentimenti e soffocavo le emozioni.
Crescevo, attraversavo l’ età della ribellione proprio negli anni della ribellione, i turbolenti anni ‘ 60 e ’ 70; il mondo cambiava velocemente e travolgeva tanti valori, eravamo tutti convinti che tagliare via le nostre tradizioni fosse la cosa migliore per evolversi e migliorare la società: illusione! Ad ogni modo, ero riuscita a liberarmi di quel legame che mi condizionava la Pasquetta e, pur senza distaccarmi dalla religione, in quel clima di insofferenza volevo imporre a me stessa nuove scelte più personali, nuove abitudini, con o senza Madonne.
Ma la vita ci conduce per vie sconosciute, così io mai avrei immaginato che nel mezzo del cammin della mia vita mi sarei trovata nella selva oscura del richiamo di Dio. Già, proprio quando credevo di aver realizzato le mie aspettative, la voce dello Spirito si faceva sentire forte dentro di me, mi induceva a cercare risposte che avevo sempre accantonato, mi accendeva il desiderio di ritornare in luoghi che avevo voluto dimenticare, luoghi in cui era scritta la mia storia.
Fu così che, in preda ad una inquietudine che ben conosce solo chi l’ ha provata, un giorno qualunque chiesi un permesso per assentarmi dal lavoro, saltai sul primo treno della circumvesuviana e rifeci quel tratto tante volte percorso. Fu un viaggio breve e lungo che andava oltre i venti minuti: rifacevo a ritroso il cammino di tutta una vita in cerca delle mie radici.
Era cambiato ben poco da ciò che ricordavo, c’ era sempre la breve discesa che dalla stazione va dritta alla facciata del Santuario, maestoso come sempre. Anche il tocco delle campane sembrava lo stesso, eppure sapevo che erano nuove, perché anche papà vi aveva contribuito con generosità.
La sorpresa fu grande nel varcare la soglia, nella sua ferialità la chiesa era vuota, tranquilla, silenziosa come non l’ avevo mai veduta, sembrava più grande e luminosa e lì, nel tempietto centrale, quell’ immagine dipinta su pietra con ingenua semplicità. Mi inginocchiai godendo della pace che sentivo scendermi nel cuore e finalmente, per la prima volta, la guardai negli occhi. Non era una bellezza secondo il canone umano o artistico, ma era bello il suo sguardo pacato e luminoso, era bello il bambino tra le sue braccia, l’ immagine stessa dell’ amore. Capii che non l’ avevo mai guardata per davvero. Lasciai cadere ogni pensiero e ogni perché, convinta che Lei mi avrebbe dato le domande giuste e le risposte. E lì, facendomi umile ai suoi piedi, fu come una visione e in un lampo mi rividi piccola, a poco più di un anno e mezzo quando non camminavo ancora ma parlavo già in modo chiaro e corretto, meravigliando tutti. Mi avevano raccontato una volta che uscivo da una lunga malattia e i miei familiari erano lì per ringraziare Maria per la mia guarigione. Ancora debole, avevo dormito quasi tutto il viaggio e per tutta la Messa. Solo dopo la Comunione mi risvegliai in braccio a mamma ed esclamai: « Comm’ è bello ccà… ». « Che cosa è bello?» chiese mia mamma. «’ a Maronna!» risposi io prontamente. E tutti si commossero. Perché quel ricordo che avevo cancellato dalla mente tornava proprio ora? La guardai di nuovo. Mi resi conto che era bellissima e capii, tra le lacrime di commozione che non volevo più nascondere, che il suo sguardo era sempre stato su di me anche se io non l’ avevo mai fissata negli occhi… E mi sentii finalmente a casa, e riascoltai nel cuore quel richiamo indimenticato: «Signo’, ‘ a Maronn ‘ e ll’ Arco!».