In teoria mi sarebbe piaciuto indossare i panni di Marco Polo, viaggiare moltissimo e visitare città sempre più distanti e diverse. Ma, come il Kublai Kan, pigro e pessimista, in "Le città invisibili" di Italo Calvino si faceva raccontare dall'instancabile Veneziano i molteplici segreti dei tanti luoghi del suo immenso Impero, così io a volte visito città in cui non sono mai stato, in sogno o più spesso attraverso libri, articoli di giornale, film, documentari, ecc.
Ho viaggiato soltanto in circa la metà dell'Europa occidentale, giungendo talvolta a poche decine o centinaia di chilometri da luoghi che, con un po' di maggiore determinazione allora, avrei potuto vedere, e che ormai non vedrò più; inoltre, ci sono città più lontane, per conoscere le quali avrei dovuto prendere l'aereo, che mi terrorizza un poco...
Ho scelto dieci città (collocandole in ordine alfabetico) che non ho mai visitato, ma che da parecchio tempo sono presenti nel mio immaginario, per motivi che cercherò, con un poco di sforzo, di spiegare.
Alla stazione di Bruxelles vidi che il treno per Amsterdam impiegava soltanto un paio d'ore per percorrere quel tragitto, ma non lo presi, essenzialmente per motivi linguistici: non conosco l'olandese, e me la cavo piuttosto male con l'inglese... Avrei voluto visitare Amsterdam per respirare quell'aria di libertà tipica dell'Olanda, non tanto la libertà sessuale o quella della vendita di caffè e di altre bevande "alle erbe", ma soprattutto la libertà di pensiero e di stampa. Mi ha infatti sempre entusiasmato sapere che, fin dal Seicento, in Olanda si potevano stampare libri impossibili da pubblicare nel resto dell'Europa (ad esempio, come si può leggere a pag. 193 di "Micro Mega" del gennaio 2015, all'inizio del Settecento, all'Aia, fu pubblicato, in francese, il libretto "La vie et l'esprit de M . Benoî t de Spinoza", in cui le figure di Mosè, di Gesù e di Maometto vengono considerate come quelle di tre impostori, che "mentirono al mondo per soggiogarlo, sfruttando la paura della morte"; la cosa più interessante è che forse questa idea originale risale al musulmano Averroè, dal quale arrivò poi all'ebreo Spinoza, i cui avi erano stati scacciati dal Portogallo: chissà, forse se il Paese lusitano non avesse seguito la Spagna nella politica dell'espulsione degli Ebrei, non sarebbe col tempo decaduto, ma avrebbe potuto prendere il posto dell'Olanda nella storia moderna...)
Da ragazzino sognavo spesso di trovarmi a Budapest, e me ne ricordavo la mattina (poi ho sempre ricordato di meno i sogni, e comunque ho sognato solo cose concrete, fattibili, di tutti i giorni, non fantastiche: non ho mai sognato i morti, ad esempio) . Forse poteva dipendere anche dal fatto di aver letto, in quel periodo, "I ragazzi della Via Paal", di Ferenc Molná r, ma comunque quella città mi sembrava rappresentativa di una vicina ma particolare zona dell'Europa centrale, abitata da un popolo di lontane ed annacquate origini asiatiche, e che parla una lingua difficilissima e misteriosa. "Budapest è la più bella città del Danubio; una sapiente automessinscena, come Vienna, ma con una robusta sostanza e una vitalità sconosciute alla rivale austriaca. Budapest dà la sensazione fisica della capitale, con una signorilità e un'imponenza da città protagonista della storia. (...) Se la Vienna moderna imita la Parigi del barone Haussmann, con i suoi grandi 'boulevards', Budapest imita a sua volta questa viennese urbanistica di riporto, è la mimesi di una mimesi; forse anche per questo assomiglia alla poesia nell'accezione platonica, il suo paesaggio suggerisce, più che l'arte, il senso dell'arte" (Claudio Magris, "Danubio", ed. "Garzanti. Gli elefanti", 1990, pag. 307) .
Avrei desiderato andare a Buenos Aires (ma con la nave, ripetendo il viaggio che, all'inizio del Novecento, fece un mio prozio materno, per poi restare lì per tutta la vita), non tanto per ammirare la città, che molti dicono essere piatta, caotica e non molto seducente, quanto per ascoltare qualche tango in un locale tipico e per respirare il particolare clima di un'Europa emigrata al di là dell'Oceano Atlantico, con i rappresentanti di quasi tutti i suoi popoli ormai ben miscelati ("Y la ciudad, ahora, es como un plano / de mil humillaciones y fracasos; / desde esa puerta he visto los ocasos / y ante ese má rmol he aguardado en vano. / Aquí el incierto ayer y el hoy distinto / me han deparado los comunes casos / de toda suerte humana; aquí mis pasos / urden su incalculable laberinto / aquí la tarde cenicienta espera / el fruto que le debe la mañ ana; / aquí mi sombra en la no menos vana / sombra final se perderá, ligera. / No nos une el amor sino el espanto; / será por eso que la quiero tanto", scriveva l'anglo- ispanico Jorge Luis Borges nella sua poesia "Buenos Aires") .
Bisanzio / Costantinopoli / Istanbul: è giusto cambiare nome alle città, quando cambiano le loro identità (dopo tanti secoli, ormai Napoli non è più "nuova" da tempo, e forse sarebbe meglio chiamarla "Veteropoli") . Avrei gradito arrivare nella "seconda Roma", nell'attuale metropoli turca con il mitico "Orient- Express", assaporando i paesaggi balcanici durante il viaggio e, come ho conosciuto Lisbona, alla fine dell'Europa verso occidente, avrei voluto conoscere la fine dell'Europa verso oriente. E poi amo pensare che il cognome di mia madre (non ce n'erano altri uguali in Campania; le circa cinquanta famiglie che lo portano vivono quasi tutte a Pesaro, mentre in Sicilia esistono circa cento famiglie che hanno una forma abbreviata, troncata dello stesso cognome) possa essere di origine greco- bizantina (è sempre difficile risalire all'origine dei cognomi, soprattutto quando essi non corrispondono per niente ai nomi comuni di una determinata lingua), possa appartenere a una di quelle famiglie di fuggiaschi che, quando Costantinopoli fu presa dai Turchi, nel 1453, si diressero verso l'Italia: "La gente umile fuggita dal Bosforo in Italia si abituò alla diversa realtà in maniera relativamente rapida. Soprattutto chi era capace di lavorare non tardò a suscitare rispetto e a raggiungere l'agiatezza" (Gerhard Herm, "I bizantini", ed. Garzanti, 1987, pag. 311) .
Sarei stato contento anche di andare a Montevideo, sulle orme di Dino Campana, del suo "Viaggio a Montevideo" (vero o soltanto immaginato, poco importa), i cui versi finali sono: "Limpido, fresco ed elettrico era il lume / Della sera e là le alte case parevan deserte / Laggiù sul mar del pirata / De la città abbandonata / Tra il mare giallo e le dune" . Da ragazzino, quando studiavo geografia, l'Uruguay mi veniva descritto come "la Svizzera del Sudamerica": era, come la Svizzera, un piccolo Paese tra due colossi, l'Argentina e il Brasile, ma più ricco e civilmente più avanzato, capace di dare ai vicini anche qualche dispiacere sportivo, come in quella famosa finale del campionato mondiale di calcio del 1950, in cui l'Uruguay sconfisse il favoritissimo Brasile al "Maracanà", causando tanti suicidi tra i tifosi brasiliani. E' da tempo che l'Uruguay non è più "la Svizzera" (anche se ultimamente l'originale presidente Mujica lo ha un po' risollevato), ma resta comunque la presunta patria d'origine della milonga e del tango e, per la sua posizione geografica, il luogo di confluenza e di ibridazione delle due culture europee egemoni in Sudamerica, la spagnola e la portoghese.
Nonostante sia rimasto, da studente, quasi due mesi a Lisbona, partecipando a parecchie gite organizzate, non ho mai visto la seconda città del Portogallo, Porto, il luogo in cui è nata la lingua gallego- portoghese, che ha poi generato il portoghese moderno. Già Lisbona si distingue per la sua riservatezza, per il suo fascino malinconico e discreto, ma pare che Porto sia addirittura una città "inglese" (e il vino omonimo era, ed è, esportato soprattutto in Inghilterra), mai conquistata dai Mori (come invece lo fu la capitale) e dedita al duro lavoro più che alle delizie dell'arte. Scriveva José Saramago, in "Viaggio in Portogallo" (ed. Einaudi, 1999, pagg. 136, 141 e 142): "In definitiva Porto, per fare onore al proprio nome, è prima di tutto quest'ampia insenatura aperta verso il fiume, ma che solo dal fiume si vede. (...) E' questo che [ il viaggiatore ] porta via con sé da Porto, un duro mistero fatto di vie tetre e di case dal colore della terra, il tutto affascinante come, all'imbrunire, le luci che a poco a poco si accendono sulle pendici, una città congiunta con un fiume che chiamano Doiro. "
Da ragazzino, chissà perché (non sapevo ancora allora chi fosse Kafka), sognavo, oltre a Budapest, anche Praga: forse, studiando la geografia, mi aveva affascinato sapere che essa era la città più occidentale del mondo slavo, incuneata in territori germanici (certe identità contaminate e sfumate hanno talvolta esercitato del fascino su di me) . Poi, da giovane, leggendo quasi tutte le opere del mitico Franz, oltre a qualche altro romanzo lì ambientato, ho avuto quasi l'impressione di visitarla, di vivere talvolta "nella città dei vecchi alchimisti e dei golem, dei rigattieri del ghetto e dei manichini di cera, nella città in cui sembrano ancora vagabondare le ombre di Rodolfo II e del Rabbi Lö w", nella città che "rappresenta per Kafka un paradossale crogiolo di tradizione e avanguardia, d'immaginazione demoniaca e di rigorosa amministrazione interiore dell'incubo e dei suoi paesaggi reali" (introduzione di Ferruccio Masini a "Il processo" di Kafka, ed. Garzanti, 1984) .
Se Praga è tuttora per me la città che simboleggia gli incubi, Rio de Janeiro è quella della liberazione dalle paure, dalla tristezza, dalla pesantezza del vivere. Il carattere della città, per molti versi opposto al mio, ha il potere, quando vedo le sue fotografie, quando osservo le sfilate dei carri del "Carnaval", quando seguo una partita di calcio giocata al "Maracanà", quando ascolto un trascinante samba, di liberare ciò che c'è di positivo e anche di un po' incosciente in me, riconciliandomi con la vita in ogni sua forma (e questo effetto si è ancora più accentuato quelle rarissime volte in cui ho avuto la fortuna di conoscere personalmente qualche brasiliano) . Diciamo che forse oggi Rio è ancora in grado di funzionare come medicina, come rimedio contro le angustie della vita, di possedere una peculiarità che probabilmente anche Napoli aveva nei secoli passati.
Pietroburgo / Pietrogrado / Leningrado / San Pietroburgo: come Istanbul, quanti nomi ha cambiato questa città, ma in quanto poco tempo! Forse è un'abitudine russa, perché un paio di amiche ucraine mi hanno detto che in Ucraina e in Russia è tutto sommato abbastanza facile cambiare pure nome e cognome personali, per motivi anche futili... Io preferisco chiamarla ancora Leningrado, come mi si era presentata a scuola da studente, anche perché il suono di questo nome mi suggerisce meglio le idee di linearità, di ampiezza e di novità, qualità che credo la città possegga. E' bello sapere che essa fu costruita nel Settecento con l'impiego di maestranze e di architetti italiani, e che l'amore per l'Italia, da quelle parti, è ancora vivo. Non ho letto quasi niente di letteratura russa, soprattutto perché non amo leggere le traduzioni, ma voglio ugualmente riportare il bellissimo incipit delle pietroburghesi "Notti bianche" di Dostoevskij, dove il protagonista, il sognatore, fa questa considerazione: "Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che possono esistere solo quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa? Anche questa domanda è da giovani, caro lettore, proprio da giovani, ma che Dio la faccia sorgere più spesso nell'anima tua! "
Si chiamava "Le soleil de Tunis", se ricordo bene, quel ristorante tunisino nel cuore di Montmartre dove mangiai il mio primo cuscus. Da allora ho pensato talvolta di visitare la Tunisia (vi si parla francese, fra l'altro...) , magari prendendo un traghetto a Trapani, ma non l'ho mai fatto. Mi sarebbe piaciuto mettere i piedi anche soltanto laddove comincia appena il continente africano, quel continente che ospitò per quasi dieci anni mio padre, come soldato della guerra italo- etiopica prima, e come prigioniero di guerra degli Inglesi poi, fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Mi sarebbe piaciuto vedere l'antica sede della civiltà punica che, se la fortuna si fosse voltata dalla sua parte ai tempi delle guerre contro Roma, avrebbe potuto disegnare un diverso scenario storico nel Mediterraneo. E poi mi sarebbe piaciuto pure capire come si vede, come si giudica il continente nero dalla sua estremità settentrionale: sarebbe forse come mettersi nei panni degli Islandesi per guardare il resto dell'Europa...