Oddio, quanta gente!
Chissà che storia oggi mi toccherà ascoltare e proprio non sono in vena di sentire qualche delirante sproloquio.
Ho ancora il fiatone e sono madida di sudore.
In questo afoso venerdì pomeriggio di giugno, dove nulla sta andando come avrebbe dovuto andare, almeno sono riuscita a prendere il treno al volo.
Mi sono scapicollata attraversando alla rinfusa tra ago e filo, è così che mi piace chiamare piazza Cadorna, rischiando incoscientemente la vita e più di un'automobilista ha sciorinato il manuale degli insulti più veementi affinché non passasse inosservata la mia sciagurata imprudenza.
Ma non potevo perdere il treno, il mio cellulare è morto e non avrei potuto avvisarlo del ritardo.
Ora, dopo un balzo olimpionico, mi appoggio alla prima parete che trovo mentre guardo chiudersi le porte.
Respiro profondamente e forse il cuore si darà una calmata.
Una rapida occhiata per individuare un posto al finestrino così potrò appoggiare il braccio sulla griglia per bearmi con la frescura dell'aria condizionata, ma deve essere a sinistra, voglio vedere quel che io so!
Trovato!!!
La fortuna comincia a girare.
Davanti a me siede un serio signore molto impegnato con il portatile, accanto a lui una ragazza così occupata a flirtare al cellulare che non si accorgerebbe neanche se il treno volasse e la signora anziana vicino a me sonnecchia, quasi certamente non cercheranno di intavolare una conversazione.
Posso godermi il viaggio, sorrido.
Beh, l'uscita da Milano non è proprio il massimo, mi mettono tristezza tutti quei casermoni in varie tonalità di grigio, qua e là qualche grafito dai colori spenti, ma poi, pian piano, cambia la vista e io aspetto.
Adoro guardare dal finestrino, rubando brevi istanti di vita altrui e immaginando le mille storie che s'intrecciano, le mille anime che si lambiscono o pervadono.
Particelle di vita verso l'entropia.
Al passaggio a livello un signore in macchina, la mano destra sul volante, mentre il gomito dell'altro braccio è appoggiato sul finestrino abbassato, l'indice, ben infilato nella narice, estrae dal naso preziose pepite che chissà dove avrà la finezza di conservare o distribuire.
In lontananza un ragazzino pigia sui pedali della sua bici come se quella forza potesse scaricare chissà quale rabbia, chissà dove vuole arrivare, chissà qual è la sua meta oggi e chissà dove lo porterà la sua storia.
Già Portichetto- Luisago; seguo spesso pensieri sparpagliati e il tempo s'ingarbuglia, quando poi si districa, ne ho perso la misura.
Sta per arrivare Grandate Breccia e qui che il mio naso quasi s'incolla al finestrino.
È il punto magico del mio viaggio.
Ogni volta m'incanto nel guardare quel piccolo bar con le sedie sulla banchina, niente di che, un po' fuori moda, sonnacchioso, ma, chissà perché, mi rapisce.
Ancor prima che il treno giunga in stazione mi preparo alla visione e non distolgo lo sguardo fintanto che non lo vedo sparire dalla mia vista e in quel momento è come se mi venisse strappato qualcosa, un breve, intenso dolore, quasi fisico.
A volte mi sono trovata a immaginare quel piccolo bar indietro nel tempo, l'ottocento forse, schegge di vite ormai sepolte, private anche dei ricordi, briciole sparite in un sentiero nebbioso, divorate dall'inclemenza dell'oblio.
È sempre troppo veloce questo momento, è già tutto finito.
Il treno è uscito dalla stazione e ancora il mio sguardo è intrecciato a pensieri aggrovigliati persi oltre il finestrino, ma qualcosa non quadra!
Il rumore.
Il rumore di treno che prima non c'era, un rumore antico, forte, ritmico.
Mi volto lentamente, tutto è cambiato.
Sono nello scompartimento di un vecchio vagone.
Davanti a me una ragazza, con abiti inizio novecento, i capelli raccolti, gli occhi bassi, siede composta le gambe strettamente unite, le mani sulle ginocchia.
Alza un attimo lo sguardo a incrociare il mio per un istante.
Una tristezza infinita mi assale, inspiegabile.
Accanto a lei una donna in carne con il viso contratto, incattivito, ha notato quel contatto di occhi e prontamente, con una smorfia rabbiosa, sibila all'orecchio della ragazza: "Svergognata!"
Accanto alla matrona un uomo dall'aria triste, le occhiaie pronunciate, lo sguardo vacuo fissa il corridoio vuoto.
Davanti a lui due donne eleganti, evidentemente molto amiche, parlottano e ridacchiano con leggerezza.
Una galleria e riflessa nel finestrino la mia immagine.
Trasalgo!
Sono un giovane ragazzo di bell'aspetto, ma con un'aria dimessa e uno sguardo disperato.
Il treno ferma a una stazione, non mi interessa sapere quale, cerco di incrociare nuovamente lo sguardo della ragazza davanti a me, ma lei continua a fissare le sue mani poggiate sulle ginocchia.
Le due giovani signore si accingono a scendere, una solleva elegantemente il braccio per prendere una borsa da viaggio damascata dal portapacchi e, rapido, l'uomo triste si alza per aiutarla facendo l'unico accenno di sorriso di tutto il viaggio.
Appena il treno riparte la donna si alza, si avvicina rabbiosa e mi assesta un violentissimo schiaffo.
Non so come mi trovo a dire: "Ma io la sposo".
La sua rabbia aumenta e paonazza urla: "Non ci pensare neanche per un attimo, tu sei nessuno!!! Torna al tuo paesello. Milano per te non esiste. MASCALZONE!"
Poi si rivolge alla ragazza, mi accorgo che silenziose lacrime segnano il suo pallidissimo volto, gli occhi sempre bassi.
La donna, che ormai è chiaro essere la madre, punta l'indice grassoccio verso di lei e, paonazza in volto, le grida: "E ringrazia Dio che tua zia ti tiene finché sarà nato il bambino, poi vedremo che fare di te!"
Chiudo gli occhi, serro i pugni, sento le mie unghie confitte nel palmo della mano offenderne la carne, dolorosamente, mentre una rabbia folle pervade ogni mia cellula.
Poi buio e silenzio.
Una risata cristallina, un vociare sommesso, riapro gli occhi, più nulla, tutto è come prima, tutto e tornato normale.
La ragazza al cellulare è sempre più presa dalla telefonata, la sua voce è più acuta, trilla continui risolini e fa smorfie accattivanti rivolte al nulla.
Il signore serio sembra un po' infastidito da questa allegria così spudoratamente esibita.
La signora anziana si netta gli occhi cisposi soffocando sbadigli stanchi.
È la mia fermata!
Raggiungo l'uscita incespicando confusa.
Scendo rapida cercandolo ansiosamente con lo sguardo.
Lui è lì, sorridente, l'abbraccio con troppa irruenza, perplesso mi chiede: "Tutto bene?"
Sussurro: "Ho viaggiato nel tempo.", non capisce.
Mi rendo conto di non poter ripetere una tale assurdità.
Mi stacco dall'abbraccio e con voce più forte scandisco: "L'ho preso appena in tempo!".
Sorride, sorrido e tenendoci per mano ci avviamo verso il parcheggio.
Mi volto un attimo a guardare ripartire il treno... il tempo... la vita...