Ancora due ore alla fine del turno. E' stata una lunga notte, purtroppo non molto tranquilla. Ho solo dieci minuti di pausa e mi serve un caffè.
Sono stanco, ho la testa pesante e i pensieri di piombo. Troppo sangue, troppi incidenti, troppa disperazione. Sono quindici anni che lavoro qui dentro e ancora non mi sono abituato a tutto questo.
Mi hanno sempre detto di non preoccuparmi, di staccare il cuore dalla mente, di essere freddo e distante, ma quando vedo quegli sguardi sofferenti, quando sento la voce del dolore e la disperazione nel pianto, come posso non pensare che sto duellando con la morte? Allora devo cercare di fare tutto il possibile con rapidità e precisione, ma chi può rassicurarmi di avere eseguito l'umanamente possibile?
Mi piacerebbe essere in contatto con Dio e, come un alunno, chiedergli se avessi potuto fare di più per evitare la sconfitta. Ma è un sogno chiuso nel mio desiderio.
E poi esisterà un Dio?
Da quando la mia unica compagnia è la morte, ho iniziato a credere che l'uomo sia solo una macchina destinata a spegnersi per poi essere gettata in loculi che dovrebbero sopravvivere al tempo. La memoria è labile e quando morirà, non avrà uno spazio dove essere sepolta e ricordata. Anche le infermiere, vedendomi in questo stato, sono preoccupate per me. Mi considerano il dottore più bravo e gentile, ma a volte la stanchezza spegne qualsiasi desiderio di essere migliore.
Allora mi rimprovero e mi infliggo delle punizioni, tipo fare cose che non mi piacciono, e le scrivo per essere sicuro di non dimenticare gli errori.
Ci sono giorni che ritorno a casa così stanco da non avere nemmeno la forza di respirare e ci sono altre volte che la mia stanchezza è mentale. Quest'ultima è pericolosa, perché non passa con una bella dormita. In quei momenti leggo le lettere dei pazienti che ho curato e immediatamente mi sento nascere dentro una forza nuova, uguale a quella passione che avevo da studente, quando leggere un libro e superare un esame di medicina mi sembravano le cose più belle del mondo.
Ricordo ancora che da ragazzino curai il ginocchio scorticato di una bambina caduta dalla bicicletta. Rivedo quello sguardo di gratitudine e quel bacio che mi lasciò sulla guancia dopo la medicazione. Allora mi resi conto che qualsiasi tesoro non sarebbe stato più prezioso di quel gesto e che avrei voluto rivivere quel momento in tutti i secondi della mia vita.
Odio la morte, la odio così tanto da non riuscire a liberarmene.
Dicono che nella vita bisogna avere un nemico e io ho lei. Una volta, senza rendermene conto, durante una pausa le feci un caffè tanto la consideravo viva e presente, vicina a me. Anche oggi le farò un caffè, se lo merita poiché ha perso un'altra partita.
Proprio così, oggi ho visto gli occhi di un ragazzino riaprirsi meravigliosamente e sorridere alla vita. Poi il paziente mi ha guardato, ha preso la mia mano destra e mi ha detto il grazie più bello di tutta la mia esistenza.
Sì, cara nemica, un caffè consolatorio te lo meriti proprio.