Ma il male oscuro silenzioso si stava facendo strada. Paolo iniziò ad accusare mal di testa. Io gli somministravo degli analgesici, ma spesso li prendeva anche a mia insaputa. Non mi aveva mai detto che i suoi mal di testa erano molto frequenti. Comunque gli prendemmo anche un appuntamento dal neurologo.
Eravamo arrivati a settembre e la scuola era già iniziata. Il giorno dell’ appuntamento dal neurologo non volle andare perché mi disse che doveva andare a scuola e che tanto non era niente di grave. Dopo pochi giorni però mi disse che vedeva doppio. Mi venne un colpo. Gli prendemmo un appuntamento urgente dal neurologo: era il 17 gennaio del 2002, il giorno che segnò per sempre la mia vita e la sua. La mattina era fredda. Ci recammo a Sassari all’ospedale per la visita. Lo studio era pieno di gente e Paolo si spazientì, con fatica lo convinsi a rimanere. Io mi sentivo un po’ strana, come se avessi un presentimento. Io, tipica donna sarda, cocciuta, testarda, forte, matriarcale, sempre padrona di me stessa, al comando della mia famiglia, sul lavoro. Mio marito mi aveva sempre dato carta bianca su tutto, andava bene a me e a lui. Sempre io a tenere le redini su tutto, ma quel giorno in cui il medico mi chiamò e mi disse: « Signora suo figlio è in idrocefalo, deve essere ricoverato d’ urgenza», mi crollò ilmondo addosso. E allora tutte le mie certezze, tutta la mia forzavacillò e mi resi conto di essere fragile. 16Fu la prima volta che mi videro piangere, perché anche se c’ eraqualcosa che non andava, mai e poi mai avrei mostrato ciò che avevo dentro. Ma fu solo un attimo, io ero forte, lo ero sempre stata e così ripresi le redini della mia vita che per un attimo avevo allentato. Da allora furono gli altri ad appoggiarsi a me, non potevo . Ma sapessi quante volte avrei voluto essere io la più vulnerabile, piangere sulla spalla di qualcuno. Ma non potevo, io dovevo rimboccarmi le maniche e attingere la mia forza per poterne uscire. Chiamai mia cognata medico, la informai di quello che mi avevano detto i medici e lei corse subito all’ ospedale. Sapeva benissimo il significato di idrocefalo, io ne ero ancora ignara, quello che sapevo era che avesse qualcosa di grave. Fu ricoverato in neurochirurgia, il medico ci disse che doveva fare un piccolo intervento di derivazione liquorale. A Paolo dicemmo che si trattava di una piccola cisti che doveva essere asportata al più presto.
Di colpo ti rendi conto che il mondo ti sta crollando addosso, la felicità spazzata via in un attimo, e non sai neanche perché, come comportarti, ma sai che l’ angoscia deve rimanere dentro. Avresti voglia di urlare tutta la tua disperazione, di piangere, ma non te lo puoi permettere, devi soffocare il tuo malessere perché Paolo non deve sapere. Come si fa a dire a un ragazzo di soli 16 anni che ha la vita davanti, un ragazzo che si sta affacciando alla vita senza problemi, che ha qualcosa di grave, che la sua vita cambierà, che niente sarà più come prima, come si fa a dire che dovrà lottare per la vita, lui che è sempre stato pieno di vitalità, come si fa a dirgli che ha un tumore, come?
Aveva i capelli lunghi e mentre glieli rasavano li vedevo cadere a terra. Insieme ai suoi ricci era come se mi stessero dissanguando. Fu quel giorno che iniziai a morire dentro e a mettere la maschera che ancora oggi porto. La mia vita mi stava sfuggendo di mano, tutto quello che era stato perfetto fino ad allora vacillava. Io che nella mia mente lo immaginavo con un futuro splendido e realizzato nella vita, mi ritrovai catapultata in un mondo a me sconosciuto, il mondo della sofferenza.
Chissà perché quel mondo ci sembra così lontano e invece é a portata di mano, basta un niente per essere scaraventati dentro. La notte stessa gli fecero l’ intervento di derivazione, gli aprirono la testa e gli misero « un tubo», diceva lui, che gli scaricava il liquor in eccesso nel peritoneo. Era un tubicino che dalla testa gli attraversava tutto il dorso e che lui non accettò mai. Quella notte all’ ospedale non mi fecero rimanere. Per me fu una crudeltà. Io volevo rimanere con lui per dargli coraggio, per consolarlo, ma andai via piangendo con la morte nel cuore. Tutto il mio mondo andava in frantumi, perché proprio a mio figlio? Perché non a me che avevo già vissuto abbastanza? Perché dovevo sopportare questo dolore? Lui aveva sedici anni e una vita davanti. Io, credente praticante fin dalla nascita, ho pregato tanto. Ero sicura che Dio mi ascoltasse, non poteva rimanere insensibile alle mie preghiere, preghiere di una madre disperata per il proprio figlio. Ma le mie preghiere si sono perse nel vuoto...
Dopo il primo intervento fatto all’ ospedale di Sassari, d’accordo con mia cognata decidemmo di prendere contatti col prof. Briccolo, primario di neurochirurgia a Verona. Lei gli portò tutti i referti mentre Paolo era ancora ricoverato e ci accordammo per l’ intervento che si sarebbe fatto a Verona. E così iniziò il nostro calvario fuori della nostra terra. La massa tumorale aveva ostruito il 4° ventricolo, e andava asportata al più presto. Il Prof. lo mise in lista d’attesa. Chiedemmo le dimissioni da Sassari e prenotammo per la « città della speranza»
.Partimmo una mattina fredda, senza sole, io, Paolo, Pietrina e Giovanni, con la tristezza nel cuore ma con tanta speranza e tanta fede in Dio.
Sì, io ero più che convinta che Dio non ci avrebbe abbandonati al nostro destino...