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… mi sei venuta in mente la scorsa notte, non so dire quale pensiero mi ha portato nella tua casa bianca, dietro il tornante, alla fine o all’ inizio del paese, la vecchia corriera, con il suo partire o arrivare ne decretava l’ esatta ubicazione. Nei miei pensieri l’ immagine del tuo cortile assolato e le grandi tavole apparecchiate di pomodori e fichi, messi ad essiccare, a volte mi sdraiavo sulla panca attigua al tavolo e guardando le crespe che lentamente si formavano sulla polpa succosa dei tuoi pomodori, immaginavo di essere un naufrago alla deriva in mare aperto, il sole alto che bruciava, avrebbe ridotto la pelle del mio viso come quei pomodori raggrinziti e secchi, allora mi coprivo gli occhi con le mani e catturavo il sole. Il sole era mio, come una perla magica brillava tra le mie dita, poi tu mi chiamavi nel tuo modo, con la tua voce allegra e cantilenate ed io entravo nella tua casa così colma di cose da scoprire. Oggetti del passato sfiorati da tante mani, immagini di Papi e Santi, abbracciate a fili di rosari, vicino a cartoline di saluti lontani, tutte scritte in bella calligrafia in un trionfo di lettere, allineate, uguali, perfette, ricordo il mio incanto davanti alla sinuosità armoniosa di quelle lettere. Piccole opere d’ arte scritte con l’ inchiostro da mani che sapevano di maestri rigidi e severi, alla ricerca del segno perfetto. Ricordo i pomeriggi passati a copiarle quando la pioggia cadeva sul tetto e il secchio vicino alla porta, raccogliendo le gocce che cercavano riparo dai fulmini, cantava allegro. Nella tua casa non c’ erano le stagioni, il fuoco nel tuo camino era sempre acceso. Ricordo la tua camera, luogo a me proibito, ogni mattina la solita raccomandazione di non entrare, ma subito dopo che eri uscita, ero lì. Dietro la tenda quella con i piccoli gondolieri stampati, lo scaffale. Al terzo ripiano c’ era la ragione per cui trasgredivo il tuo volere: un cioccolatino doppio strato di cacao nero e una sottile striscia di crema al centro. Ricordo la mia calma nel mangiarlo, non esisteva nulla di più buono al mondo. Tu rientravi e mi chiedevi se avessi mangiato qualcosa. Ci guardavamo negli occhi ed io rispondevo di no. Era il nostro gioco segreto. Ogni giorno un nuovo cioccolatino da conquistare al terzo ripiano. Ricordo le tue pentole, passavi ore a lucidare quell’ alluminio pesante, china sul lavandino strofinavi e strofinavi fino a che non erano lucide, perfette, le tue mani diventavano rosse, sotto il filo di acqua continua, a volte cantavi, e a volte ti mordevi il labbro inferiore mentre eri assorta nel lavoro. le tue pentole avevano il potere di rendere il più semplice dei cibi una prelibatezza, erano pentole fatate ne sono certa, ora sono in casa di mia madre e anche lì accade lo stesso miracolo. Un giorno saranno mie. Ricordo il tuo orto giardino, il posto più disordinato e allegro che io abbia mai visto, le piante di insalata condividevano la zolla di terra, con eleganti gladioli rossi e tra le foglie di sedano strisciavano le campanelle carpatiche, una mescolanza di colori, forme, profumi e aromi che sono impressi per sempre dentro di me, e poi quella piccola cappella dove su un basamento in pietra avevi messo una piccola madonna di gesso, i miei occhi arrivavano all’ altezza dei suoi piedi ed io ogni volta mi chiedevo cosa ci facesse un serpente tra quelle dita, allora strappavo qualche foglia e lo ricoprivo. Mi sembrava più appropriato che un serpente stesse sotto le foglie. Al mattino mi sedevo sotto il grande albero di fico e da lì la tua terra, la mia terra, si spalancava davanti ai miei occhi, con i suoi uliveti in lontananza, i suoi vigneti tramandati di padre in figlio, le sue rocce granitiche; con le sue piante di mirto, di lentisco, di ginestra, che si lasciavano cullare dal grecale che arrivava leggero e fresco dall’ orizzonte. Io seduta lì con la mia tazza di latte tra le mani, mi sbalordivo di tanta bellezza. Ecco formichine anche a voi un po’ di latte, questa mattina facciamo colazione insieme. Mi ricordo di te, dei tuoi seni grandi, pesanti, della tua pelle di luna e dei tuoi occhi di brace spenta, delle tue filastrocche allegre, del tuo senso dell'umorismo sottile e imprevedibile, dei tuoi capelli d’ argento intrecciati e nascosti sotto l’ austero fazzoletto, che solo le antiche donne sarde sanno indossare. Quante cose tue vivono dentro di me, ho lo stesso tuo modo di mordermi il labbro inferiore, i miei occhi come i tuoi non hanno argini e i turbamenti si tramutano spesso in lacrime che a volte hanno il sapore di gioia e stupore. Ora a un semplice ricordo, si affiancano tante immagini belle, intense, che chiedono attenzione e portano in dono una nuova emozione sepolta nella memoria. So che ti troverò al picco dell’ aquila, il posto dove le anime s’ incontrano e decidono il loro nuovo cammino, so che sarai lì ad aspettarmi. Ti abbraccerò e non ci saranno parole da dire, prenderai ancora una volta la mia mano e sussurrerai: Mariantoniespisi andiamo a prendere l’ acqua alla fonte………. Ciao nonna. | |
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Un racconto molto apprezzato(da sarda e non)... (Lia)
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