Anche quella mattina, il barone Giovanni Maria delle Acacie si era svegliato di buon’ ora. Mentre la moglie preparava la solita, ricca colazione a base di pan tostato, marmellata di lamponi, yogurt e una tazza di caffè bollente lui, seduto in poltrona si smarriva nella luce del televisore che, a quell’ ora, mandava in onda vecchi film comici o passate commedie, buone per riportare alla memoria i begl’ anni trascorsi. Amalia, da più di vent’ anni, ogni mattina si indaffarata a porre sul tavolo una tovaglietta riccamente colorata che, come sempre doveva lavare appena terminato il lunch mattutino, per le macchie che il barone suo marito, riusciva a cospargere dappertutto. Questo si svolgeva nel più rigoroso e mistico silenzio. Il barone delle Acacie non se la sentiva di intavolare discorsi nelle prime ore del giorno. Doveva trattenere tutto per quando usciva. Era là fuori, nei caffè che frequentava già alle prime luci dell’ alba, che si sarebbe rifatto. E, come tutte le mattine, appena terminato di ingoiare quello che c’ era sul tavolo, il nobiluomo si alzava furtivamente, come se in quell’ istante avesse sentito venire dalla sedia un calore insopportabile, da non poter resistere nella comoda posizione. Sbarbatosi e pettinati i capelli bianchi come la neve, si guardava allo specchio pochi secondi poi, correndo giù per le scale, usciva veloce, per non mancare di salutare tutti quelli che prima delle otto si recavano al lavoro.
Oramai era diventato un rito irrinunciabile. “ ciao Peppino; ciao Carletto, e la Juve? Buon giorno signor barone, la sua signora sta bene? Sì, sì,ma la Juve?” E così, tutte le mattine il cerimoniale si compiva su quel pezzo di strada che portava al bar, sempre lo stesso. La gente del paese da tanti anni lo conosceva. Da tempo, in quell’ agglomerato di case che sorge sulla sponda piemontese del Ticino, gli abitanti avevano imparato a conoscere quel simpatico gentiluomo un po’ decaduto.
Cinquantenne, bella presenza, sempre allegro e mai stanco della vita, qualunque fosse il suo corso; ma, soprattutto, sempre disponibile per ognuno. La sua più grande passione erano le automobili. Non ne perdeva una. Se sulla piazza del paese arrivava un modello nuovo lui, era il primo a saperlo e anche il primo che si metteva a gironzolargli intorno. Conosceva di queste tutti i pregi e difetti. Se qualcuno lo osservava mentre era intento a contemplare un’ automobile un po’ speciale, poteva notare nei suoi occhi un luccicore inconsueto, simile alla passione d’ amore per una donna. La smisurata mania per le automobili nasceva dal fatto che anche personalmente ne aveva possedute diverse. Di ogni modello. Dall’ Aurelia spider, alla Porsche Carrera, dalla Giulietta al Maggiolone cabrio. Ognuno, di questi amori, era controllato e vezzeggiato con le più riguardose cautele. Se non fossero esistite le automobili, forse, nemmeno il barone Giovanni Maria delle Acacie sarebbe venuto al mondo. Erano la sua vita. Conosceva tutte le autofficine della zona.
A volte, si immischiava in vaghe pastoie politiche; ma, appena gli altri se ne andavano, si riprometteva per il giorno dopo di non più interessarsi. Il giorno dopo era la solita storia. “ sono tutti dei ladroni, non bisognerebbe andare a votare. Loro mangiano e noi… qui a lavorare per mantenerli.” Le ultime parole non avrebbe mai dovuto pronunciarle; forse capiva, guardando le facce degli altri che lui, il barone, non aveva mai mosso un dito in nessuna attività. Ma era lo stesso, lui era con tutti: lavoratori e disoccupati. Quando il bar si era svuotato e, non avendo più nessuno con cui brontolare, si recava in qualche supermercato della zona per le piccole compere quotidiane. Le cose che comperava erano sempre le stesse: confezioni viste la sera al televisore, un paio di scatolette ben disegnate e altre cianfrusaglie. Il vero motivo delle visite nei supermercati era in verità un altro. Vedere un po’ di gente, chiacchierare con le cassiere e, soprattutto, poter toccare quella roba sistemata sugli scaffali. Perlustrazioni che, alcune volte, si ripetevano per tre o quattro volte il giorno. Mezzo etto di questo, mezza porzione di quello.
Quando arrivava l’ estate, era consuetudine familiare passare la maggior parte sella stagione al mare. Il suo posto preferito, avendo anche un alloggio da alcuni anni, era Loano. Ma anche in riviera la sua stanza ideale era, comunque, la strada o la spiaggia. Come nel paese dove abitava, anche a Loano lo conoscevano tutti. Non c’ era bottegaio o bagnino, vigile o barista che, incontrandolo per il carruggio, non si fermasse un istante a chiacchierare con il simpatico barone delle Acacie. Ai rivieraschi piaceva prestare orecchio alle avventure della risaia. E lui, se lo ascoltavano di buona lena, si lasciava andare in racconti che a volte rasentavano la fantasia delle favole.
Si mormorava che un giorno, parlando con un maestro di scuola elementare del paese, il nobiluomo lo avesse ammonito dicendogli che la sua fortuna era sempre stata quella di vivere, ma soprattutto insegnare in periferia; se fosse vissuto a Milano, avrebbe dovuto, con il proprio diploma, accontentarsi di fare il bidello. Rimane il fatto che, aldilà delle battute, delle scherzose smoderatezze, il barone visse sempre da gentiluomo dal grande cuore. Come già gli era successo più di una volta, se gli capitava di dover assistere in determinate situazioni, un infermo di famiglia e non, era capace con estrema forza di volontà, di staccarsi dalle consuetudini quotidiane del vivere, per dedicarsi anima e corpo al malato o a chi, in quegli istanti aveva bisogno. Ma, anche ai nobili dall’ animo buono, viene il tempo dei mutamenti.