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Fidel

Biografie e Diari

Il gallo è lì, piantato saldamente nella mia infanzia, con il suo piumaggio multicolore e i temibili artigli. L’altro gallo era d’un nero antipatico. Per un attimo ci fu silenzio, poi si scatenò l’inferno.

I galli lanciati nell’arena si azzuffarono con ferocia. Penne e piume si spandevano tutt’attorno. La baracca era satura del fumo dei sigari e il frastuono delle voci che si sprigionava dalla calca era intollerabile. Fidel e io ci infilavamo tra e sotto le gambe degli astanti nell’arduo tentativo di conquistare la prima fila. Ci beccammo una quantità d’insulti del tipo “¡Carajos niños fuera de las bolas!”, “Coño de tu madre” e così via. Alla fine riuscimmo a trovare uno spiraglio rasoterra dal quale osservare l’ultimo atto del combattimento. Le scommesse erano gridate sempre più forti, mazzette di bolivar sventolavano tra i pugni ben serrati. Il gallo nero infieriva su quello multicolore. Il sangue rosso vivo sprizzava dalle ferite e si aggrumava nel suolo polveroso. Il gallo multicolore sdraiato su un lato sussultava freneticamente. Un uomo si lanciò nell’arena, allontanò il gallo nero e prese in braccio il ferito. Bestemmiava tra sé mentre accarezzava il suo povero gallo agonizzante. La folla cominciò a disperdersi, mazzette di denaro passavano da una mano all’altra, alcuni litigavano verbalmente, altri venivano decisamente alle mani. Io piangevo per l’infausta sorte del mio gallo preferito. Avrei voluto accarezzarlo anch’io ma non mi fu possibile perché l’uomo che l’aveva raccolto era già sparito. Fidel mi mise un braccio sulle spalle cercando di consolarmi. Uscimmo dalla baracca dei combattimenti e rientrammo nell’altrettanto affollato e fumoso saloon. Qui incontrammo i miei zii, Ettore e Camillo, i quali ci rimproverarono di essere spariti e di averli fatti stare in ansia: “ Se tuo padre viene a sapere che ti abbiamo perso di vista sono guai”. I miei due giovani zii, siamo nel 1957 a El Sombrero, Estado Guárico, Venezuela, erano i fratelli minori che mio padre Cesidio aveva richiamato dall’Italia per farli lavorare con lui. Erano due scavezzacolli, con poca voglia di lavorare, desiderosi solo di divertimenti, insomma il cruccio di mio padre. S’inventavano le scuse più fantasiose per sfuggire alle loro incombenze. Quella sera avevano detto a mio padre che ci portavano a vedere uno spettacolo interessante, ma non avevano specificato quale! Era una scusa, in realtà ci portarono in un’equivoca bettola dove, lo capimmo poi, essi incontravano delle prostitute. Infatti, a un certo punto, ci affidarono a due pittoresche signore sedute a un tavolo e si allontanarono raccomandandoci di aspettarli e di non dare fastidio a nessuno. Li vedemmo in fondo al locale abbrancati a due ragazze dall’aspetto variopinto e apparentemente molto giovani e poi sparire. Dopo qualche tempo cominciai ad avere un po’ di sonno e mi accasciai sul tavolo. La signora accanto a me, che si sventagliava continuamente cercando di allontanare il denso fumo che riempiva il locale, mi fece sedere sul suo grembo. Io appoggiai il capo sulle sue enormi tette profumate, bene in vista, e mi addormentai.

La voce di zio Camillo mi destò: “ Su andiamo che si è fatto tardi, Cesidio comincerà a preoccuparsi”. Salimmo tutti sulla camionetta e arrivammo a casa. Mio padre era lì ad attenderci imbronciato. Volarono dei rimproveri anche per Fidel che fu apostrofato: “ Mi meraviglio di te Fidel! Ti avevo affidato Angelo e di non fare tardi proprio perché non mi fidavo di questi due perdigiorno” additando i miei zii.

In effetti Fidel aveva qualche anno più di me e un carattere molto responsabile per cui mio padre si fidava di lui. Anni prima Fidel era stato uno smunto bambino dalla pelle marrone che aveva bussato alla nostra porta chiedendo a mio padre se avesse del lavoro per lui. Gli aveva raccontato di non avere famiglia, di essere solo al mondo. Mio padre lo aveva preso con lui e lo trattava come uno dei figli. Anni dopo scoprii che in realtà Fidel una famiglia l’aveva!

Una volta lo seguii non visto, quando spariva ogni tanto per una mezza giornata, e lo vidi entrare in una baracca nel bosco prossimo al paese dove vivevano uomini, donne e diversi bambini che lo abbracciavano con molta confidenza. Lo vidi passar loro del denaro, sicuramente una parte di quello che gli dava mio padre. Non so se mio padre fosse informato di questa situazione, io non dissi nulla ed egli non ne ha mai parlato.

Fidel cresciuto era diventato un ragazzotto cicciottello e allegro. Aveva sempre un luminoso sorriso attraverso il quale tralucevano denti bianchissimi. Era un mio grande amico, invece temeva mio fratello minore, allora di appena quattro anni, del quale diceva: “¡El niñito es muy malo, caramba!”. Mio fratello minore era una peste da bambino. Ad esempio, mentre io, se si presentava qualcuno a chiedere l’elemosina, subito correvo da mia madre per perorare qualche soldo o del cibo, mio fratello raccoglieva dei sassi per lanciarli addosso ai postulanti!

A Fidel piaceva immensamente il succo di pomodoro. Se ne preparava enormi bibitoni spremendoli con la passatrice manuale che avevamo in cucina. Ci mischiava un po’ d’ olio e di sale, si sedeva sotto la veranda, e sorseggiava con voluttà la bibita, soprattutto negli afosi meriggi dominati da un sole abbacinante.

A forza di osservarlo, anch’io, che mai prima avevo osato bere un simile intruglio, provai il desiderio di assaggiarlo. Da quel giorno siamo diventati in due sotto la veranda a sorseggiare il delizioso nettare.

Fidel, anche se con più anni di me, non era mai stato a scuola per cui mio padre dovette iscriverlo alla prima classe mentre io avevo iniziato già la seconda. In effetti anch’ io ero in ritardo di un paio d’anni a causa di certi disguidi. Un anno lo avevo perso perché i miei, occupati nel loro intenso lavoro, si erano dimenticati di iscrivermi per tempo! Quando si erano ricordati la scuola mi aveva rifiutato perché all’apertura non avevo compiuto gli anni richiesti e inoltre non avevo presentato nei termini la domanda di ammissione per l’anticipo. Un altro anno lo avevo perso perché ero stato mandato in Italia per essere educato. Questa decisione era stata presa perché mio padre, in particolare, non voleva che crescessi come un selvaggio, come sempre predicava!

Da quando eravamo arrivati io e mia madre in Venezuela per ricongiungerci con mio padre, che avevo appena quattro anni, mi ero subito abituato allo stile locale del piccolo paesino nel quale abitavamo e in cui si svolgeva l’attività di famiglia. Non avvertii nessuna discontinuità nella mia esistenza, né per la lingua né per le abitudini. Mi sembrava di essere stato sempre lì.

Così scorazzavo con gli altri bambini per le strade polverose, spesso a piedi nudi. Ero subito diventato abbronzatissimo. Ancor oggi mi basta una modesta esposizione al sole per diventarlo!

A stento potevo essere distinto dai locali. Quando fui costretto a partire per l’ Italia opposi molte resistenze. Dovevamo prendere la nave che partiva da La Guaira, il porto di Caracas.

Arrivati al porto con l’ automobile gli altri scesero tutti e così io ne approfittai per chiudermi dentro. Protestai, singhiozzai, resistetti, ma infine riuscirono ad aprire l’ auto dal portabagagli, mi presero di peso e mi misero sulla nave insieme a mia madre.

In Italia fummo ospitati da mio zio Feliciano, il fratello di mia madre Jolanda, a Sulmona.

Lei rimase solo per alcuni mesi per organizzare la mia permanenza e poi ripartì per aiutare mio padre nel suo duro lavoro. Mio padre era andato in Venezuela all’ inizio del 1948, pochi mesi dopo la mia nascita. Come quelli della sua generazione, quella del 1922, egli aveva subìto in pieno l’impatto della seconda guerra mondiale. Mandato in una caserma del nord aveva fatto l’aviere su dei bombardieri. Sarebbe dovuto partire per la Grecia ma per un disguido non ci andò.

Probabilmente io sono qui a raccontare questa storia proprio per questa casualità.

In Venezuela aveva fatto tanti lavori diversi fino ad approdare a El Sombrero nel quale aveva messo su un negozio, una specie di bazar, che io ricordi, e poi costruito sul retro, nel terreno acquistato, una piccola pensioncina con annessa trattoria che si può ammirare nella foto sopra.

Mio padre è quel signore magro e sorridente in piedi al centro della foto e che porta un piatto. Mio fratello è il bambinetto seduto con la mano destra sopra la testa che fa a braccio di ferro con un altro bambino di spalle. Io sono quello sulla sinistra in piedi appoggiato alla colonna. Appena a destra, seduto, con una folta capigliatura nera, riconosco il barbiere che era originario di Pratola Peligna. Mia madre s’intravede appena nella finestrella in fondo che dà sulla cucina. Purtroppo manca Fidel del quale non ho alcuna foto.

Dopo un anno di permanenza in Italia mia madre tornò a riprendermi perché non resisteva lontano da me. Questa volta ebbi qualche difficoltà a tornare in Venezuela perché in Italia mi ero fatto degli amici, ma alla fine mi dovetti rassegnare a ripartire.

Al ritorno tutto come prima. Ricominciai le mie scorribande insieme a Fidel.

Uno dei nostri luoghi preferiti era un fiume ai margini del paese cui si accedeva attraversando una fitta vegetazione tropicale, oppure si poteva ammirare dall’alto da un grande ponte metallico di sinistra fama, e del quale dirò più in là.

Nel fiume nuotavamo in un’ansa frequentata da tanti altri ragazzi. Ripensandoci adesso era sicuramente un posto pericoloso, in mezzo a una fitta boscaglia. Un fiume le cui rive erano ingombre di alberi e vegetazione e c’era anche una discreta corrente. Si raccontavano storie poco rassicuranti su questo fiume. Ad esempio sulla presunta esistenza in esso di strani pesci velenosi. Una volta Fidel m'indicò una donna claudicante a causa di una gamba enormemente rigonfia e sfigurata e mi disse che era stata morsa da un pesce di questo fiume. A noi non accadde mai nulla di serio eccetto qualche volta che ci siamo trovati in difficoltà a tornare a riva a causa della corrente. Tutto ciò avveniva senza che i miei sospettassero nulla, impegnati com’erano a tempo pieno con il loro lavoro! A scuola Fidel soffriva, come mi confessava. Io invece me la cavavo bene, anzi ero uno dei più bravi. I maestri mi stimavano. Era una scuola in spagnolo, l’ unica del paese.

Inizialmente mio padre aveva pensato di mandarmi a una scuola in cui si studiasse anche l’Italiano, ma questa era in una città abbastanza lontana, San Juan de los Morros, e così i miei decisero di non farne nulla.

Ero l’unico che sapesse leggere l’orologio, quello a lancette ovviamente! Il maestro disegnava il quadrante sulla lavagna, con le lancette in varie posizioni, e chiedeva alla classe che ora fosse. Siccome spesso nessuno rispondeva alla fine si rivolgeva a me per farmi dire l’ora.

Dove avessi imparato a leggere l’ora non ricordo, mi sembra di averlo sempre saputo fare.

A una certa ora suonava la campanella per la ricreazione che si svolgeva nel cortile. L’edificio scolastico, come la maggior parte delle case del paese, era in muratura e strutturato su un unico piano, a terra, con all’ interno un giardino, al cui centro era posta una fontana, circondato da un porticato sul quale si aprivano le aule scolastiche. Fidel ed io avevamo scoperto, come altri della scuola, un buco nel muro di cinta che ci permetteva di passare nel giardino della chiesa adiacente.

Il parroco di questa chiesa era originario di Pratola Peligna e come sacrestano aveva assunto il giovane nipote fatto venire da poco dall’Italia. In questo giardino c’erano degli alberi di mango e noi andavamo a coglierli. Com’erano profumati e così buoni al gusto, niente a che vedere con quelli che si trovano nei nostri supermercati! Senonché il nipote del prete, messo a guardia dallo zio, a volte ci sorprendeva e c’inseguiva per tutto il giardino fino al buco di ritorno dentro la scuola, dove però non osava avventurarsi. Quante corse affannose con Fidel che si permetteva persino di fare i versacci all’inseguitore!

Comunque anch’io, insieme a Fidel, non disdegnavo di marinare la scuola di tanto in tanto per andarcene in giro per il paese. Un’altra nostra meta era un luogo chiamato “El Tamarindo”, sulla strada di accesso al paese dove c’era un posto di ristoro nel quale, tra l’altro, si vendeva la suddetta bevanda. Qui incontravamo spesso un ragazzino che avrà avuto la mia età e che faceva il lustrascarpe ovvero “el limpiabote” come si diceva lì. Aveva una cassetta portattrezzi di legno a due piani e a più scomparti che si aprivano scorrendo. Dentro vi custodiva diversi tipi di lucido, pannetti, spazzole e altri attrezzi per la pulitura e la lucidatura. Non mi stancavo mai di osservarlo all’opera, era tanto piccino quanto professionale. Mi colpiva la sua abilità nell’usare il panno per la lucidatura che manovrava con grande rapidità a destra e a sinistra strofinando con destrezza le scarpe che magicamente diventavano da sporchissime a lucidissime. Era di poche parole ma non aveva un atteggiamento timido, piuttosto riservato. Era accurato e ordinato, molto metodico. Gli invidiavo quella cassetta. Gli chiedevo informazioni, come fare a procurarsela, ma egli rispondeva sempre in modo evasivo. Insomma anch’io volevo fare il limpiabote! Così un giorno espressi a mio padre questo mio desiderio e gli chiesi di procurarmi una cassetta. Rimediai un sonoro scapaccione e l’ esortazione: “ Va' a studiare!”. Perciò ritornai dal ragazzino e gli chiesi se mi vendeva la sua cassetta. Quello mi guardò con quei suoi occhi scuri, così seri, e disse: “ No, a te non la vendo”. Io rimasi perplesso per la risposta “ Te la pago quanto vuoi” replicai. Ma quello fece un secco gesto di rifiuto. Raccolse le sue cose e stava andando via. Feci un ultimo tentativo e gli urlai dietro: “Ma perché?”. Egli si girò e mi rispose tranquillamente: “Perché tu non sarai mai un limpiabote”. Si volse definitivamente e scomparve dietro l’angolo. Da quel giorno non sono più andato a El Tamarindo. La pensione di mio padre si sviluppava su due piani e aveva una decina di stanze. Sopra c’era un lastrico solare sul quale era installato un enorme serbatoio d’acqua scoperto, una specie di piscina sopraelevata, di poco più di un metro di altezza ma ampia, che riforniva i lavandini e le docce delle camere per i soli lavaggi, era sconsigliato berla. Nelle giornate più afose Fidel ed io andavamo a immergerci in esso avendo cura di non farci notare da nessuno. Un giorno mentre salivamo di soppiatto per compiere quest'operazione intravvedemmo da una porta socchiusa di una stanza del primo piano una nostra inserviente nuda sotto la doccia. Era costei una donna grande, robusta, dalla lucida pelle marrone e con immensi attributi femminili, così ci appariva quella visione. Sostammo incantati a osservarla. Dopo un po’ lei si accorse di noi e ci guardò senza alcun imbarazzo, noi invece fummo molto imbarazzati e non sapevamo che fare.

Allora lei sorrise e ci spronò: “¿Adelante niños queréis un poquito de frío?” facendoci segno di raggiungerla. Passata la sorpresa entrammo nella stanza, ci svestimmo, anche se con un certo timore, ed entrammo insieme nella doccia. Rimanemmo così, sotto l’ acqua scrosciante, abbarbicati a quella montagna di carne soda dall’ intenso aroma di sesso.

Quella volta che vennero i giostrai ci mettemmo nei guai. Stavamo giocando a lanciare degli anelli di legno su dei pioli posti al centro di uno spazio circolare. A ogni piolo, in funzione della maggiore difficoltà del lancio, era associato un premio d'importanza crescente. A un certo punto ne centrai uno il cui premio era un bel coltellino a serramanico. Il gestore del padiglione però con rapida mossa tolse l’anello dal piolo e mi negò la vincita. Intervenne Fidel che minacciò il figuro di denunciarlo alla polizia, per cui alla fine ci mollò il premio. Senonché mentre continuavamo ad aggirarci tra i padiglioni, ed io, fiero della vincita, scherzavo con Fidel sul coltello, si avvicinarono due poliziotti che ci intimarono di consegnare il coltello perché di tipo illegale.

Ora in quel momento il coltello l’avevo in tasca per cui ho subito sospettato del gestore del gioco dei pioli che per vendicarsi ci aveva segnalati alla polizia. A quell’epoca in Venezuela vigeva un regime dittatoriale sotto il comando di Marcos Pérez Jiménez. Era uno stato di polizia con incerte garanzie per i diritti delle persone. Insomma, nonostante fossimo dei bambini, ci misero dietro le sbarre e ci tennero lì circa un’ora fino all’arrivo di mio padre al quale ci restituirono con grandi sogghigni. Va da sé che, invece di prendersela con gli scorretti poliziotti, mio padre se la prese con noi e ci beccammo un paio di scapaccioni. Naturalmente il coltellino ci fu confiscato dai poliziotti.

Il grande ponte metallico sul nostro fiume si diceva fosse un’importantissima via di comunicazione tra la costa e l’interno del Venezuela in quanto la via proseguiva da una parte verso le pianure centrali denominate Los Llanos e dall’altra verso i monti dove c’erano le miniere di minerali pregiati. Io però non ho mai visto granché di traffico per esso. Comunque in una delle nostre peregrinazioni intorno al ponte ci accadde di assistere a un episodio terribile. Vedemmo arrivare una camionetta della polizia. Da essa scesero tre poliziotti e una persona ammanettata. A costui furono tolte le manette e offerto qualcosa da fumare, forse una sigaretta. Poi ci fu un conciliabolo tra i poliziotti e la persona, quindi questa si mosse a piedi in direzione dell’altra estremità del ponte, prima lentamente e poi sempre più velocemente fino ad arrivare a correre. Giunto quasi alla fine del ponte i poliziotti imbracciarono i fucili e iniziarono a sparargli. Non riuscì a fare che un’altra decina di metri che cadde colpito a morte. I poliziotti recuperarono il corpo, lo caricarono sulla camionetta, e andarono via. Per fortuna noi eravamo ben nascosti nella vegetazione e a una certa distanza e quegli assassini non si accorsero di noi. Non ne parlammo con nessuno, a maggior ragione con i miei genitori. In seguito venimmo a sapere che questa era una prassi usata in quel periodo con i prigionieri scomodi.

Quante avventure abbiamo condiviso Fidel e io al punto che ormai ci chiamavamo reciprocamente “hermano” ovvero fratello! Poi nel gennaio del 1958 ci fu una sollevazione popolare generale, con violenti disordini nelle strade che costrinsero il dittatore a lasciare il paese. In quei giorni c’era rischio anche per noi immigrati. Tra i rivoltosi c’era chi sobillava la popolazione contro gli stranieri. Anche nel nostro piccolo e periferico paese, delle teste calde, spesso ubriachi, incontrandoci ci offendevano. Ci chiamavano, in senso dispregiativo, con qualcosa che, se non ricordo male, suonava come “monsiù”, probabilmente una distorsione del termine francese “ monsieur”, signore. Ci attribuivano tutte le colpe del loro disagio, e persino persone locali che in passato ci avevano mostrato amicizia prendevano le distanze da noi. Ma non Fidel! Egli si sentiva, e lo era effettivamente, uno della nostra famiglia e più di una volta rischiò di essere malmenato per aver preso le nostre difese contro suoi compaesani.

A un certo punto nel giardino della chiesa, proprio di fronte al nostro negozio, sulla piazza principale del paese dedicata, tanto per cambiare, a Simón Bolívar, arrivò una pattuglia dell’ esercito che installò una mitragliatrice per la difesa dell’ordine pubblico. Allora mio padre decise che era arrivato il momento di tornare in Italia, spronato in questo da mia madre che già da tempo era diventata insofferente a causa del clima caldo umido che lei affermava nuocesse alla sua salute. Così mio padre decise di vendere la proprietà. Non riusciva però a trovare un unico compratore a causa del costo ritenuto ingente. Alla fine, abbassando un po’ il prezzo, riuscì a trovare due acquirenti: un ebreo che acquistò il negozio e un arabo che rilevò la pensione e la trattoria. Mio padre si è sempre rammaricato di essersi sentito costretto ad andarsene svendendo, secondo lui, quella proprietà conquistata con durissimi sacrifici.

A Fidel diede una somma di denaro con la quale poteva iniziare una sua attività da qualche parte.

E così venne l’ora dell’addio e fu drammatica. Fidel s'inginocchiò davanti a mio padre singhiozzando disperato: “Portami con te!”. Ma mio padre gli disse che non poteva. Non so se egli sapesse o meno dell’esistenza di una famiglia di Fidel, ma questa fu la sua decisione. Fu l’unica volta nella quale vidi Fidel triste e addirittura piangere. Mentre la nostra auto si allontanava ed egli salutava mesto dal mezzo della strada polverosa, e camion dell’esercito zigzagavano qua e là con gruppi di persone in corteo inneggianti alla libertà, a me tornavano in mente visioni dei nostri giorni felici sotto la veranda a bere lo squisito succo di pomodoro e a discettare sulla vita e sulle cose come solo sanno fare i bambini.

Ci sei ancora Fidel? Amo credere di sì e che anche tu, ogni tanto, pensi a me.

Il gallo però è sempre lì, piantato saldamente nella mia infanzia, spavaldo nel suo meraviglioso piumaggio multicolore. Pronto a combattere di nuovo.


Angelo Ricotta 10/11/2012 21:07 1242

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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