Cara maestra,
le scrivo questa lettera nella lingua che parlo tutti i giorni e che ho imparato solo all’età di dodici anni.
Ho letto con apprensione la sua missiva e sento il bisogno di fare alcune considerazioni.
Arriva il momento in cui, nella vita, i ricordi diventano delle pietre miliari che segnano il confine tra finzione e realtà...
La mia infanzia è legata ai momenti belli della mia esistenza ed al rimpianto di non averli saputo assaporare fino in fondo.
Il cervello di un adolescente è come una lavagna sulla quale vengono impresse delle sensazioni, anche insignificanti, che tornano ad affiorare «fotogramma per fotogramma» nel corso degli anni.
Apparentemente, ho dimenticato il mio passato, in realtà l’ho soltanto rimosso dalla mia mente, perché ha condizionato le mie scelte di vita in modo determinante.
Per quanto mi sforzi di pensare, i soli ricordi che emergono dalla mia testa sono legati alle persone che hanno continuato, in qualche modo, a vivere accanto a me anche dopo la partenza: mio padre e, in maniera più approfondita, mia madre che è morta il 03 gennaio 1993.
Si dice che ricordare abbia un valore terapeutico empirico. Non sono d'accordo con questa teoria, perché i ricordi appartengono ad un passato remoto che ognuno di noi vorrebbe esorcizzare con l’oblio.
Oggi, che sono un cinquantenne brizzolato, guardo la realtà in modo diverso e penso che sarei contento se, un giorno, uno dei miei alunni mi scrivesse per dirmi le cose che ha provato nei momenti che abbiamo passato insieme, all’interno di una classe.
Spero che lei stia in buona salute e mi farebbe piacere, in futuro, avere ancora sue notizie.
Antonio