I tre amici di cui andrò a raccontare, non è che fossero gli unici vitelloni sulla piazza di Rimini ma i frequentatori assidui del Bar Diana ove ho trascorso la mia giovinezza; io dal mio canto, crescevo da bravo vitellino, rispecchiandomi nelle loro avventure e gags. Oggi, 5/11/2010 sono stato a visitare le loro tombe, l’una vicina all’altra, come a non volersi perdere di vista nemmeno in morte. Ho letto l’epitaffio sulla tomba di Duilio e ne sono rimasto colpito: “…E’ giunto il momento di sciogliere le vele… ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.”
Francesco Babbi, detto Bucina, figlio dell’on. Giuseppe Babbi, eletto al parlamento nel 1948, era Checco per gli amici, anzi Bucina. Fu buon bevitore a piccole dosi, sempre elegante, unico neo calza corta. Collaborava in seno all’azienda paterna, poi in compagnia degli amici passava il tempo centellinando il suo bicchiere di vino e ciarlando. Ebbe il ruolo di giudice nella burla allo “Sceriffo” che condannò a morte per impiccagione: vicenda che andrò ad esporre in successivi racconti. Tante sono le storie che si tramandano sul suo conto, ma qui ne voglio raccontare una vissuta in prima persona e non riferitami da altri, dato che lo conoscevo bene e con lui i suoi amici Piero e Duilio.
Siamo nei primi anni ‘70 al Palace Hotel di Rimini in cui ero Capo-Ricevimento. Arriva una sera con una “tedescotta” sulla cinquantina, dal volto rubicondo, chiede una matrimoniale e si ritira con lei. Il mattino seguente scende dalla camera di buon mattino, lo saluto come si conviene con gli ospiti dandogli del Lei. M’interrompe con decisione e mi dice: “Lascia stare il Lei e chiamami Bucina, la Signora è mia ospite per qualsiasi cosa desideri, mi raccomando non deve pagare nulla! ” faccio appena in tempo ad offrirgli un caffè che prende la porta e sparisce.
Checco non stava mai con lei, anche se qualche volta lo incrociavo quando si ritirava raramente con la donna. Dopo una settimana di soggiorno, Checco mi chiede di chiudere il conto e mentre salda dice che la Signora è in partenza ma se lo cerca non vuole vederla e aggiunge: “Dille che non sai dove sono, dille quel che vuoi, dille che sono andato in America, dille che sono andato affanculo, dille quello che ti pare ma io non esisto”. Così mi proposi di fare ma la Signora cominciò presto a citofonare dalla camera: era ubriaca fradicia e le sue urla trapassavano i muri. Voleva a tutti i costi parlare col signor Babbi e non c’era verso d’acquietarla, continuava a mantenere il citofono aperto perché voleva parlare con il suo Francesco.
Fui costretto a troncare la comunicazione e chiamare al telefono l’amico Bucina che confermò di non volerla, né vedere, né sentire e aggiunse: “Io sono morto, lei deve partire”. Sommessamente replicai che mi sembrava proprio che la Signora volesse di tutto tranne che partire e chiesi anche come mi dovevo comportare in caso di ulteriori consumazioni da parte della teutonica. Checco chiosò dicendo: “Falla pagare è una Baronessa, ma falla partire, chiama l’esercito, chiama i pompieri ma liberami da quella donna, io sono morto”. In albergo era una mattina di grande via vai, come sempre, e non potevo stare continuamente al telefono con un’ubriaca; anche la cameriera ai piani mi mise in allarme pur non essendoci bisogno: le urla giungevano chiare e distinte, nell’imbarazzo generale degli astanti e mio in particolare.
Poi improvvisamente apparve sulle scale, in camicia da notte ed i capelli d’una furia, si teneva stretta al corrimano per non cadere, pronunciando frasi sconnesse. La cameriera riuscì a ricondurla con fatica in stanza. Poco tempo dopo, ma era ormai mezzogiorno, ridiscese in vestaglia con sopra una mantella sbottonata e chiese del vino e da mangiare. Attenendomi alle rigide disposizioni del suo ospite ed anche della direzione per casi d’emergenza, le dissi che se desiderava ordinare il ristorante avrebbe aperto di lì a poco ma avrebbe dovuto vestirsi decentemente e pagare in anticipo l’ordinazione. Farfugliò che era ospite del signor Babbi ma io di rimando le dissi che questi aveva già saldato il conto ed era partito senza lasciare recapito. Rispose che aveva perduto il portafoglio e chiese un caffè che non gli fu servito. Speravo partisse, ma non fu così. Uscì così com’era e andò al vicino Bar Ristorante Lino, dove era stata la sera prima con Bucina. Miracolosamente ritrovò il portafoglio. Tornò, si sedette sul divano di fronte all’Ufficio di ricevimento in cui prestavo servizio e cominciò a inveire dandomi dello stupido.
Chiamai i carabinieri, lei, nel frattempo, salì in camera e ridiscese che sembrava un’altra persona: vestita con un elegante tailleur alla tirolese con mantellina e cappello alpino con lunga penna di fagiano.
Raccontai ai carabinieri come si erano svolti i fatti, la donna tacque sempre. Alla fine dell’esposizione disse semplicemente: “Io qui buona, buona, quel signore lì (indicandomi) stupido!” I carabinieri l’acquietarono e lei si acquietò. Chiesi loro cosa potevano fare ma i carabinieri risposero: “Nulla, abbiamo ottimi rapporti consolari con la Germania e non possiamo intervenire altrimenti, se vuole faccia una denuncia”. Desistetti. L’indomani partì di buon mattino dicendo che aveva girato il mondo ma mai era stata trattata così. Dimenticò in camera diverse collane etniche di un certo valore che mai reclamò e non potemmo nemmeno spedirgliele per mancanza d’indirizzo. Dopo un mese circa arrivò una cartolina illustrata da una località termale in Germania. Scriveva che non era mai stata così bene come a Rimini e ringraziava tutto lo staff del Palace Hotel, squisitamente gentile e sempre disponibile. Incontrai in seguito Bucina e gli raccontai com’era andata, cartolina di ringraziamenti compresa. Checco si scusò dicendo che era una ricca e stravagante Baronessa ma che alzava troppo spesso il gomito. La cosa detta da lui, era proprio tutto dire ed anche molto attendibile!