Fu durante un pomeriggio afoso d'estate che "La Zingara" arrivò ad Amardolce. Il vento di scirocco sibilava, lamentandosi come un bambino che ha perso la strada di casa, sollevando fastidiosi tourbillons di polvere che disegnavano, nell’ aria surriscaldata dal sole, strane sagome di personaggi fantasmagorici.
Il paese era così deserto a quell’ora da somigliare vagamente alla cittadina di San Miguel del film di Sergio Leone «Per un pugno di dollari».
Gli amardolcesi che la videro arrivare furono pochi e, a dire il vero, quelli che alzarono realmente lo sguardo verso la donna, appena scesa dall’ autobus delle ore 16. 00, furono quattro - cinque.
Gli altri erano così concentrati a giocare a Tresette, davanti al Bar Centrale, che nessuno al mondo avrebbe potuto attirare la loro attenzione, ma tutti quelli che la videro quel pomeriggio testimoniarono al processo, che si sarebbe celebrato due anni dopo, che La Zingara avesse nel portamento qualcosa d’ inquietante.
Indossava una camicetta a fiori sbottonata che lasciava intravedere un seno abbondante, una lunga gonna a petits pois che metteva in risalto una gravidanza giunta quasi al termine, un paio d’ infradito di gomma e un foulard trasparente che le copriva il viso.
La zingara, come la chiamavano tutti al paese da quel giorno, dopo essere scesa dall’ autobus, si accarezzò dolcemente la pancia come per accertarsi che il feto fosse ancora presente, dopo il lungo viaggio in corriera, e si avviò verso le case popolari antisismiche costruite subito dopo il terremoto sulla Majella del 1933 la cui intensità fu del IX grado della Scala Mercalli.
Dopo essersi guardata attorno con circospezione, come se avesse perso l’ orientamento, si avvicinò a un passante e gli chiese: “Dove si trova la casa di Maria Grazia Pettinato?”, con tono accattivante.
Il sagrestano, che aveva appena fatto suonare le campane de “l’ une de nore” rispose quasi intimorito alla donna incinta: “Abita in quella casa rosa, dove si vede quella vasca con i pesci!”
La donna si avvicinò alla casa rosa, notò che la porta d’ ingresso era aperta, entrò nell’ appartamento immerso nel silenzio più profondo e, come se conoscesse alla perfezione la sua planimetrica, si recò direttamente in camera da letto, dove riposava una coppia seminuda.
Giuliana era sdraiata sul fianco, con le braccia conserte sul ventre, mentre Antonio “era coricato sul letto disfatto come Cristo sulla croce”.
Nell’ angolo della camera, c’ era una culla, dove dormiva beatamente un bambino.
La Zingara, dopo aver guardato l’ uomo sdraiato sul letto con disprezzo, decretò che egli non appartenesse al quel quadro vivente dall’ ambiente, austero e povero, che lo ospitava e in preda ad una crisi di gelosia incontrollabile, si recò in cucina, come una sonnambula, aprì il tiretto del tavolo, afferrò un lungo coltello affilato come un rasoio e tornò in camera da letto, con gli occhi sinistramente torvi.
Si avvicinò all’ uomo, che dormiva profondamente, gli afferrò il pene con la mano e lo evirò con un solo taglio. Prese il pene insanguinato nella mano sinistra, buttò il coltello insanguinato sul pavimento e uscì dalla camera senza proferire parola.
Antonio urlò come un forsennato cercando di fermare la fuoriuscita di sangue che inondò le lenzuola in un batter d’ occhio, sotto lo sguardo attonito di Giuliana.
La Zingara uscì precipitosamente dalla casa rosa, ma prima di allontanarsi dal luogo del delitto buttò il membro tagliato nella vasca dove un folto branco di pesciolini nuotava svogliatamente nell’ acqua bollente.
“Ormai, non ti servirà più a niente, figlio di puttana!”, urlò come una forsennata la Zingara.
I Carabinieri la trovarono inginocchiata davanti alla vasca mentre guardava i pesci intenti a divorare l’ inaspettato quanto succulento cibo.
Lei si lasciò ammanettare senza opporre resistenza.
“L’unica frase che l’imputata continuava a ripetere in uno stato confusionario, riferì il Maresciallo Nicola Rossi, quando fu chiamato a deporre sul banco dei testimoni”, fu la seguente:
“ Non avrei dovuto sposarlo quel maledetto figlio di puttana!”.
Dopo che il G. I.P., sentite le osservazioni del difensore d’ ufficio che chiedeva l’infermità mentale dell’ imputata, convalidò l’ arresto della Zingara che fu rinchiusa nelle carceri di Sulmona in attesa del processo.
Il processo fu celebrato due anni dopo l’accaduto e la Zingara fu assolta dall’ accusa di tentato omicidio, ma fu condannata a cinque anni di detenzione per “ ferimento doloso” poiché “ l’atto insano fu commesso in un attimo di follia”.
Sei mesi dopo, ottenne gli arresti domiciliari, poi riacquistò la piena libertà poiché madre di tre figli minorenni.
Antonio, il marito bigamo evirato, si costituì parte civile e ottenne, dopo una lunga e travagliata battaglia processuale, una lauta pensione per invalidità permanente.
Ancora oggi ad Amardolce, dopo mezzo secolo da quel maledetto pomeriggio d’ estate, quando si alza lo scirocco, trovi ancora qualcuno che racconta “ la vera storia della Zingara che tagliò il pene al marito bigamo e lo buttò nella vasca dei pesci”.