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L'amore igoiato

Dramma

Nella mente, assenza. Di tutto.

Luce, nella stanza semivuota, pochi mobili. Nuovi.

Immobile.

Lei è seduta, di lato al tavolo, braccia abbandonate ai fianchi, persa, chissà dove. E’vestita? Sì, forse sì. Deve esser stata vestita quando un secolo prima l’ha trovato. Ora non ricorda cosa stesse facendo prima di quel momento, le pare d’esser nata in quell'istante, già vecchia e stanca.

Ha sentito dei rumori provenire da quella che loro chiamano dispensa.

Avevano pensato d'allestire quello strano sgabuzzino senza porte e finestre, che affaccia sul soggiorno, con 2 semplici scaffalature ed una tenda a chiudere. E’capiente da potercisi nascondere dentro e muovere agilmente. Ben illuminato dalla luce naturale che proviene dalla porta finestra di fronte, nella stanza arredata con un tavolo 4 sedie ed un mobile giorno, tutto legno noce. Sobrio, pulito semplice. La loro nuova casa. L'alcova da cui ricominciare.

- Rumori insoliti.

E’allenata lei, la sua pancia le suggerisce da sempre ogni cosa.

Già sa, laggiù dove si nascondono i pensieri scomodi, dove fuggono le verità che fanno male, eppure s'artigliano, fanno male uguale, anzi di più.

L’ha voluto vedere spostando la tenda, nudo chino lui, là, in posizione fetale ma, ginocchia avambracci e faccia a terra. Eccolo.

E tutto si è fermato, azzerando il tempo. Passato presente futuro.

Cosa sia successo tra quella fotografia nella mente ed ora, seduta, non lo sa. Non che non lo ricordi, proprio non lo sa!

"Ti prego, dì qualcosa!"

Piagnucola ancora nudo, stavolta in ginocchio di fronte a quella donna che un tempo è stata sua e che ora non è più di nessuno, neppure di se stessa.

"Non fare così, mi spaventi..."

Lei non lo fa apposta, ma non riesce, proprio non riesce, a pensare, a sentire, qualcosa, qualunque cosa. Forse sta morendo? Si può morire di dolore? Grottesco, sta "bene", non sente semplicemente nulla e non avverte alcuna necessità alcuna fretta urgenza d'uscire da quella sorta di paralisi, dell'esistere. E’bianca assenza. Di tutto. Per sempre una fine. Una soluzione, finalmente, a quel calvario.

Ma perché nessuno lo spiega mai cosa sia veramente la tossicodipendenza? Perché lo si tiene nascosto tra le mura domestiche di coloro che muoiono ogni giorno un po', trascinandosi dietro tutto? Perché? A chi giova mentire? Pensa di saperlo, ma non è importante, nulla lo è.

"per sempre ora riconoscerò chi come me ha avuto la morte come compagno di letto"

Ma questo lo penserà solo molto moltissimo tempo dopo.

"Ti prego, non mi lasciare… stammi vicino…"

Aggrappato alle gambe di lei, come un bimbo alla sua mamma, piange, sincero. Continua mormorando cose di cui lei non è neppure consapevole, ché infine non le serve esser attenta, non ora. Non in quel momento. Tanto è la solita storia, un bisogno d’entrambi, ma anche questo lo capirà solo molto tempo dopo.

Adesso, da qualche parte dentro sé, sa esistere una strana incongruente soddisfazione, lo ha beccato. Cesseranno le bugie. Almeno. Non riesce ancora a trionfare di quella certezza, ma la sente fare i primi passi nella sua mente, appena dietro i suoi occhi vuoti.

Forse è questo che la convince. Ancora un po’ .

Trascorre un tempo elastico, si potrebbe dire, ora lo direbbe, variabile tra il niente e l’infinito.

Di pianto. Di assenza. Di dolore nascosto, pronto ad esplodere.

Poi, con uno sforzo pari a quello che farebbe chi abbia perso l’uso delle braccia e debba riacquistarlo all’istante, pena la vita, solleva le sue e amorevolmente posa le mani bianche sul capo chino di lui.

Non lo perdonerà mai del tutto, soprattutto mai più dimenticherà quel corpo nudo ricurvo su una striscia di polvere a terra. Ma adesso serve quel gesto, per buttarsi alle spalle la morte.

E’inizio primavera, di un anno qualsiasi.

Le piace il suo lavoro, ma non va volentieri in ufficio. Sua mamma ha l’abilità innata di radiografarla con uno sguardo, e lei non vuole che sappiano. Se la caverà da sola, come sempre ha fatto, se ne convince.

La mattina si prepara, attenta al particolare, i capelli lunghissimi sempre in ordine, puliti. Le mani curatissime.

Chi l’incroci per strada non ha dubbi, è una giovane donna felice e soddisfatta della propria vita, anzi di più, fiera. Finché non la guardi negli occhi.

La strada a piedi tra casa ed ufficio ingoia una parte dell’angoscia, ed una parte la ingoia il cibo.

Il discount al mattino non ha nessuna attrattiva, il mattino è un nuovo giorno, un nuovo inizio, la vita che vorrebbe. A passo svelto divora la strada esattamente come divora ogni cosa, ormai già da 5 anni. Divora se stessa.

Eccola in ufficio, pronta. Il sorriso che porta costantemente in volto, non è finto, un regalo di madre natura, un dono di benvenuto al mondo.

Saluti tra colleghi.

Le piace il suo posto di lavoro, le dà una dimensione in cui riconoscersi, là lei ha un ruolo prestante e ciò che fa ottiene un risultato tangibile, nessuna promessa disattesa, ad ogni azione corrisponde un effetto preciso e prevedibile. Anche i contrattempi sono previsti, affrontati, risolti. Le incognite presto svelate. Tutto è una semplice operazione matematica. I rapporti con i colleghi sono buoni, con il suo vicino di scrivania, Piero, s’è creato un bel feeling, ne va orgogliosa, è un tipo ostico, dalla lingua lunga, dà filo da torcere a tutti, ma lei è riuscita ad imporsi nel loro rapporto in modo autorevole e gentile, com’è tipico del suo fare. Gioco forza il suo fascino, altro dono di madre natura. Dicono tutti sia una bella ragazza, ma lei sa che la sua forza sta nel fascino, ben oltre la bellezza, un insieme armonioso ed accattivante di modo di fare, muoversi, parlare ed essere. L’empatia l’aiuta moltissimo, entra in relazione con le persone, come le conoscesse da sempre, si sente camaleontica, istintivamente plasmata sull’altro. Ancora non è consapevole d’andare oltre, troppo oltre se stessa.

“Guarda un po’ qui, cosa dobbiamo fare” Tonno, il socio di suo padre, esordisce così, frase tipica di chi sia lì per uno scherzo beffardo del destino, nessun saluto, inutile orpello alla vita, così come inutile pare sia lavarsi. Le porge dei fogli, a disfarsi d’un orribile insetto fastidioso e puzzolente.

Inizia la sua giornata, la risucchia il lavoro. Non oggi.

Oggi lei non è là, non è, s’è persa. La sua mente e tutto ciò che vi è attaccato, inghiottiti la sera prima in uno sgabuzzino- dispensa. Chissà chi o cosa, o se, rivomiterà fuori prima o poi, o se sia per sempre, il ché non è neppure male.

Istintivamente si passa una mano tra i capelli, vi affonda le dita. Dio che morbidi, e le pare un paradosso, non dovrebbero essere così morbidi i capelli di chi stia per morire. Morire? E di cosa? E chi lo sa! Ma sa una cosa, sta morendo, sorride dentro sé, non vista, le dà la sensazione di coltivare qualcosa solo suo, il segreto della morte. Si sorprende per un attimo a pensare che mai prima aveva visualizzato così spesso la morte, e che soprattutto non le fa alcuna paura. Una compagna fidata, ecco cos’è per lei, ora, l’unica certezza che ha.

I pantaloni questa mattina le sono scivolati addosso come una carezza amata. S’è specchiata di corsa ma attenta, ormai ha imparato così bene cosa osservare in quello specchio, che l’ha fotografato nella mente, un fotogramma, un rettangolo di sé, nella sua testa è tutta lei, il busto fino alle cosce. Seno pancia fianchi culo cosce. Di lei non le serve sapere altro, insieme al numero che appare sul display della bilancia, non quello dei kili, quello degli etti.

Stamani era quasi perfetta, tutto sommato quanto è successo ieri sera ha avuto l’enorme fantastico vantaggio di saltar la cena e tolto l’appetito, e all’alba al gabinetto s’è svuotata del poco che ancora il suo corpo tratteneva. Sarà stata l’agitazione. Ora, in ufficio, su quella sedia, gongola, il pensiero che gli abiti le stiano leggermente larghi l’accarezza per tutto il giorno, un pensiero col quale fa letteralmente l’amore e dal quale come sempre si lascia rapire, come si farebbe con un amante che prometta di portarti su di un’isola felice. La leggera ansia che la riempie e svuota insieme, è sempre in agguato, famelica, così soprappensiero, si passa il palmo della mano sulla pancia, piatta.

Sa di essere attraente. Le piace esserlo, ha gusto, anche nel vestire, mai appariscente o volgare, elegante e sensuale allo stesso tempo, cosa che ha scoperto da poco. Per tutto il periodo dell’università non se n’è curata affatto, nascondersi nei vestiti è stato quanto di più naturale le venisse da fare. Inoltre la lotta per lo studio, mai andato troppo a genio, l’ha assorbita del tutto, o così le piace credere. Passerebbe le ore, e qualche volta lo fa, a leggere i suoi libri preferiti, ma ha sempre avuto un’avversione per le regole imposte, soprattutto nello studio. Quei tempi da rispettare, orari, ritmi, sono stati l’enorme grosso ostacolo che infine l’hanno convinta a mollare.

Da quando ha iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia, abbandonate le corse alla fermata del bus nelle ore di punta, viaggi tra puzze nella folla, contatti invadenti di corpi sconosciuti, si veste con più cura, deliziata dal sapore nuovo dell’esser notata. Gli studenti, tanto di più impegnati socialmente, non danno soddisfazione. Gli uomini più grandi invece, la notano. E la corteggiano. E a lei piace, non le frega nulla di nessuno, ma l’esser guardata è una droga. Una delle tante. Le dà il senso d’esistere.

“Ti ha salutata oggi?”

La fa trasalire improvvisamente Piero, con fare sornione, senza distogliere lo sguardo dal suo monitor. Sono giorni ormai che spettegolano su Marco, che non saluta, va a singhiozzo, giorni sì e giorni no e a Dea la cosa manda in bestia. Proprio non lo sopporta. Al mattino lei arriva, attraversa l’ufficio dove coabita con Francesco e Piero, prosegue nel reparto collaudo passando davanti ai progettisti, Giacomo, Luigi ed infine Marco, per andare a salutare sua mamma, più avanti. Tutti hanno sempre avuto con lei modi accondiscendenti e lei sa bene di doverlo alla sua posizione, figlia del titolare, neppure nasconde quella punta d’alterigia che le deriva. Allora perché Marco non la saluta?

“Non so perché, ma ultimamente Marco non mi saluta più, pare faccia così anche con gli altri.” aveva lasciato cadere l’argomento casualmente tra lei e suo padre, qualche giorno prima, sapendo già in partenza che l’avrebbe criticata, se le andava bene, ignorata, se le andava peggio. Aveva trovato critica.

“Ma cosa t’importa, tu non dovresti nemmeno notarle certe cose, pensa a lavorare”

Anche questo la mandava in bestia, quell’ultima frase di suo padre, inserita a chiusura d’ogni discorso, o tentato tale, fra loro. Quasi che qualunque cosa potesse distrarla dal lavoro. Per suo padre mai nulla di ciò che lei faceva era abbastanza. Poteva far di più, era una certezza questa su cui era fondato tutto il loro rapporto. Avesse scalato l’Everest, l’avrebbe guardata e le avrebbe detto “Potevi scalare il k2” era un dato di fatto.

Non ci faceva quasi più caso, o comunque doveva in qualche modo essersene fatta una ragione. C’erano poi quei giorni in cui suo padre riusciva ancora a farla sentire come la donna più importante della sua vita, e quei giorni la ripagavano di tutto.

Piero ora la guarda, con un mezzo sorriso, attende.

“Ma figurati!”

Risponde Dea sghignazzando.

“Avrà le mestruazioni!”

Ride anche Piero. Francesco, poco distante da loro non può far a meno d’intervenire.

“O sarà incinto!”

“Oddio speriamo non inizi il travaglio!”

Ridono tutti e tre.

A ben pensarci, Dea sa che ciò che la indispone non è il saluto mancato di Marco, del quale peraltro non le importa assolutamente nulla, ma la mancata attenzione. Mal sopporta lei di non essere al centro dell’attenzione. Primogenita, prima nipotina di nonni e zii, abituata da sempre ad esserlo, non esser notata, essere ignorata da qualcuno, la getta in profonda prostrazione. Un disagio col quale mal convive. Neppure analizza questa sensazione, per lei questo è, inappellabile.

“Questa sera lo affronto…”

Questo pensiero le dà la calma necessaria a dedicarsi con un po’ più d’attenzione al lavoro. Le piace esser precisa e meticolosa, oltre che imporre il proprio stile in ogni cosa che fa, così convinta che nulla possa prescindere da lei. Ha ereditato questa presunzione dalla famiglia Arcuri, come ama ricordarle spesso mamma, tra il divertito e la stizza, che non trattiene verso la famiglia di suo marito.

“…un’insalata e la carne, speriamo non abbia fatto la pasta”

Il suo sottofondo, pensiero costante, il cibo, scandito in appuntamenti inderogabili della giornata. Ora s’avvicina il pranzo e sale l’ansia. Solitamente va a mangiare dai suoi, abitano nel palazzo di fronte la ditta, ma è un po’ di tempo che medita di declinare l’invito, visto che casa sua dista appena dieci minuti di tragitto a piedi, anche se non ha voglia di passare 20 minuti della sua ora di pausa, a correre, per essere in orario a lavoro. Ma a casa dai genitori non avere il completo controllo di ciò che mangia la mette a disagio, sa che a loro non sfugge nulla, ormai segnati dalla terapia. Hanno imparato a riconoscere ogni minimo segnale. Allo stesso tempo mangiare ciò che le prepara la mamma le dà una parvenza di normalità, sensazione che tutto vada per il meglio. Si ciba anche di questo. Lei si ciba di ogni cosa, emozioni e sentimenti, paure ed angosce, entrano ed escono dalla sua pancia attraverso la bocca. Lo ha imparato molti anni prima, non ricorda quando esattamente, né ne ha mai compreso appieno il motivo, benché sia stato questo uno dei temi più sviscerati in gruppo. Già, il gruppo, il suo gruppo. Era leader.

“Chissà come stanno le altre…”

Ogni tanto questo pensiero la sfiora. Il gruppo, le sue compagne di viaggio, meteore, doloranti quanto lei, scie di sangue in cielo.

Ieri e tutto il resto, un ricordo lontano, ingoiato.


Angela Fragiacomo 31/01/2012 08:13 1 1291

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«Nomi e personaggi d'invenzione.»

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«Un racconto che potrebbe essere la storia tipo di molti. Lo rivedo negli occhi di chi mi passa accanto... di chi "divora" cibo e sentimenti, ingurgitando di tutto fino al giorno in cui ha voglia di ricominciare ad esistere... e si specchia. L'immagine riflessa è l'inizio di un percorso, un'evoluzione che porterà la protagonista a?... aspetto la seconda parte...»
Lorella Elle

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