Avevo appena parcheggiato l’auto e mi diressi verso le strisce che attraversavano la tangenziale. Le automobili sfrecciavano veloci. Arrivammo nello stesso momento, io e una signora, che con uno slancio si stava buttando, senza guardare né a destra, né a sinistra.
L’ afferrai per un braccio, sembrava la fabbrica del dolore. Forse si stava buttando o forse no, ma cominciò a parlare bevendo lacrime, che stranamente non le cambiavano la voce.
Scorrevano, senza interruzione. La faccia sembrava una di quelle mele rosse che si lucidano e poi si mettono nelle cassette. Una mela lucida che parla.
- E’ difficile vivere ancora – disse.
La guardai intensamente, aveva gli occhi neri e fissi.
- Mio figlio, 20 anni, si è sparato. Col fucile da caccia. Era soldato .-Sono morta anch’ io. Non mi ero accorta che soffrisse. Era a casa da due giorni, in licenza. Era andato nella cantina, sotto al portico. Poi, ho sentito lo sparo.
- Ho raccolto i suoi capelli e la sua carne sulla parete. Non c’è stato nulla da fare.
Non riuscivo a parlare: un dramma assurdo e crudele. Già stanco di vivere a 20 anni, e nessuno l’ aveva intuito.
- Aveva qualche problema, non sopportava la distanza dalla famiglia o dalla fidanzata? – provai a chiedere forse solo nella mia mente, perché non mi rispose.
L’ abbracciai, e tenendola stretta attraversammo la strada. Sentivo e vedevo il suo rimorso: era una mela rossa bucata da due rubinetti vuoti che stillavano acqua.
Lei mi porse la fotografia del figlio. Alto e bello, con gli occhi vuoti e tristi, come quelli di sua madre.
L’ ho portata in un bar, a prendere un caffè, ho provato a consigliarla di farsi seguire da qualche psicologo. Chissà se lo farà!
Oggi ho scritto una poesia, forse riuscirò a non pensarla più.