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Le Ricordanze di Anastasija

In stanza pallida,
ahi, triste camera,
giacque una fetida
ombra, sta muta.
Vladìmir esanime
giacèa, il dispotico,
Fato era Morte;
ed era rorido
del sudòr - l’ultimo.
V’era una giòvine
sua infermïera,
debole e timida,
sguardo perplesso,
occhi che cèlano
che custodìscono
tristo pensiero.
Muto era l’àtomo
del respìr, tremulo
era il bolscèvico,
tremante l’Anima...
muto cadavere.
Era già morto?...
«Nànja » le disse
il suo morente
«Nànja, mi chiamano
i Fati. Nàrrami -
il mio desìo -
prima che l’Anima
muoia col corpo...
nànja, raccòntami...
fàmmi più docile
la Morte pallida...
nànja, proclàmami
la fine oscena
del mio rivale!
Dimmi... sussùrrami
come morirono
i tetri uomini,
lo czàr Nicòla...
nànja, fa’ pago
il mio desìr!».
La donna in lagrime
era una giòvine
presa dal sudicio
sguardo d’un diavolo,
il manicomio.
Vladìmir ebbe
un dì pietà
di questa misera
fanciulla incognita
di prole stolida
rimasta ignota...
cadde malato,
la volle in camera
come badante
della sua Vita,
come figliuola.
Ma ora Vladìmir
era già muto,
era già gelido,
esangue, rigido,
fu paralitico
per mesi e giorni.
Chi ha parlato?
Forse il suo spirito,
forse sua Anima,
e ne chiedeva
la fìn dei Cesari...
Chi ha parlato?
Forse di misera
donna l’eterno
mistèr materno,
forse una figlia...
spirto d’isterica.
Nànja narrò.
«A marzo flebile
sotto le nuvole
le nevi sciolsero,
soffiàvan zefiri
a Ekaterinburg.
Marciando giunsero
rossi ed indomiti
i soviet, uomini
co’ lor fucili.
Erano formidi,
e vendicavano
la gleba libera
fin dal lor Cesare,
la Duma nobile,
consesso santo,
da czàr concesso;
e bestemmiavano,
marciàvan bruti,
ed èran vindici
or di Potèmkin,
ora dei martiri
spenti dagli ussari
d’aquile gotiche
per le trincee.
Vladìmir, dìcoti
quel che m’han detto!
Quest’empi urlavano,
chiamàron servi,
a questi diedero
truci scagliarono
fredde pallottole
in fronti esanimi,
sangue e terrore,
senza pietà.
Le serve or presero,
anche le nanje,
anche le dade
e le spogliarono
senza pudore,
le uccìser tutte
lì violentandole...
lì le sgozzarono.
Presero i nobili,
lo czàr, la prole,
li trascinarono
sotto le nuvole,
di sotto il Sole
di Primavera.
Le nobildonne
s’inginocchiavano
dianzi a’ mariti
e proteggevano
i pargoletti.
Nicòla in tremiti
facèa coraggio,
guardava i crudi,
li benediva,
li perdonava...
Ebbe pietà!
La mira presero,
dunque spararono.
Sùbito caddero,
al suòl morirono
servetti e nobili,
lo czar, le femmine,
bimbi e neonati.
Vladìmir, dìcoti:
èran innocenti!
Questa tua furia
ha trucidati
bimbi che un giorno
sarèbber stati
savi ministri
di Pace e Amòr!
Vladìmir, dìcoti:
che dalla strage
si sia salvata
fanciulla misera.
Dìcon giurasse
vendetta orribile.
Vladìmir, fole
sono soltanto?».
Tacque la donna,
tacque il tiranno,
zitto l’inconscio
d’una fanciulla...
Vladìmir esanime
era già morto.
Yosef entrò,
guardò il cadavere
con sprezzo e palpiti,
e sorrideva,
scrutò con sdegno
la giòvin femmina,
lei ch’era povera
matta... una folle
d’un manicomio,
senza famiglia,
forse una serva
di quei pezzenti
che dì lavorano
nelle gran fabbriche
pe’ i campi, i sudici
servi del Diavolo,
senza pietà.
Scosse la testa,
toccòsi il naso
per non sentire
l’odore putrido
di quello scheletro;
pensò al Potere,
e poscia uscì.
La donna, allora,
scossa e silente,
tremante tutta,
mise una mano
al cuore, al seno,
cavò un anello,
lo mise all’indice,
quasi pentita,
un po’ rapace,
e compiacente.
Sconvolti èrano
i capèi, in palpiti
il petto torrido
per tanti fulmini,
sembrava isterica,
folle... malata,
morbosa in turbini...
La man sinistra
accarezzava
il corpo rigido
del suo paziente,
del suo patrigno...
del suo tiranno.
Stringeva il pugno
con la sua destra
quasi a colpire
l’odiosa salma
dell’uomo amato.
Le labbra risero,
piangèvan gli occhi,
mesta alienata
da un Mostro infame,
Rivoluzione...
supina cadde
al petto esangue
del miserabile
sòviet supremo...
Sognava in lagrime...
e venne l’incubo:
tra il fango e i vermi
che pullulavano
come formiche
sul ghiaccio sciolto
stavano i nobili,
stava lo czàr.
La donna scorse
l’orbo cadavere:
«Otèts! Otèts! ».
Niuna risposta
tranne che l’eco...
E l’infermiera
colta da un morbo
mostrava al cielo
di quella camera
del soviet spento
un oro, anello;
lì v’era un’aquila,
serto bicipite,
pel Cielo vindice,
Gloria e furòr.
Ed ella urlò:
«Otèts Otèts!
Yà ljubljù tebjà...
Proschàj, Otèts,
proschài navièk! ».
Le Ricordanze di Anastasija
Poesia in esclusiva
Massimiliano Zaino 26/11/2017 20:15 1| 390

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.


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Nota dell'autore:
«[1] Badante in lingua russa.
[2] In Russia la Servitù della Gleba venne abolita negli anni ’80 del XIX Secolo.
[3] La Duma è il parlamento russo, esistente dal 1885.
[4] Nutrici in lingua russa.
[5] Ovviamente trattasi di Stalin.
[6] Padre! Padre! In lingua russa.
[7] Padre! Padre! Io ti ho amato! A presto, padre… addio per sempre! In lingua russa.
»

Commenti sulla poesia Commenti di altri autori:

«Un’opera ambiziosa, colossale, dal sapore antico e forse poco digeribile ai più. Ma mi ha catturato fin dal primo verso e condotto alla fine nonostante la lunghezza. C’è maestria fra questi versi. Il mio plauso è sincero.»
Club ScrivereStefano Drakul Canepa (26/11/2017) Modifica questo commento

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