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Come mi è o furia o sprezzo questo vento
che dal mattin che va a risoffiar sento,
mentre gelida grida una Tempesta,
che urla funesta!...
e come mesto mi sembra il suo sguardo,
d’eterne guerre invincìbil baluardo,
con il suo labbro che durante il giorno
dà fiato a un truce corno,
e ordina forse il preparato assalto,
mentr’io lo intendo chiuso nel mio spalto!...
e come piega, soffiando là, fuori,
i primi fiori!
Mi sembra sia una possa che crüènta
sempre mi scruta, e dopo mi spaventa
qui, lievemente alzandomi da terra,
e che poi ovunque afferra
le polveri a me d’intorno, e in suoi vortici
le prende e le trascina, e come forbici
la Primavera che viene e sorride
bruto recide.
Mi sembra che ei percuota anche il mio cuore,
con le sue attese, tra i Sogni e il torpore...
che lo prenda e lo stringa e che lo scagli
qua e là, gridando ragli
per la campagna ora da lui vessata,
e per i campi arati. E mai placata
è la sua Furia, il suo fischio irridente
e irriverente
che di se stesso inghiotte l’eco, e il muto
chiasso, e il tacito aspetto; e che perduto,
come l’Anima mia, di marzo spegne
e Sole e nubi indegne.
Fors’ei non è che l’ultimo discorso
guerresco dell’inverno, tra il rimorso
di rinunciare al gelo delle nevi
o aver più lievi
zefiri, e il canto di una vana impresa:
che il verno vinca! e spenta e vilipesa
resti la Primavera, e s’allontani
co’ il suo cuor, le sue mani;
e vada oltre. Chè codesto Pöèta
non la deve conoscere! E si allieta
questo vento a ripeterlo alle curie
delle sue Furie,
mentre d’intorno io scorgo le campagne
‘ve vanamente l’äirone in lagne
riscagliato qua e là prova a volare,
e forse per scappare,
e dove i rami impiccano i germogli
penzolanti al soffiar dell’aër, spogli
appena, appena, e la terra apre pozze
di piogge sozze,
e le ripe riposano, chiudendo
in sé le foglie dei fiori, spendendo
le loro prime posse contro il Fato
che con loro è infuriato,
dove presto vedrò forse il fraseggio
rosso dei rossi papaveri, e il seggio
degli uccelli del bosco sulle querce
ancora guerce;
e dove, adesso, il Sole che risplende
fa risaltar di smeraldo le bende
delle ferite foglie, in mezzo a’ soffi
di quest’eteri goffi.
Oh come mi cattura questo verde
contrasto di ombre e fuochi, e che si sperde
negli orizzonti donde si ritira
il verno, e spira!
E così presto la Tempesta muore,
e il vento scema, e sboccia un altro fiore,
in un nuovo ritorno eterno, e santo
nel mezzo del mio canto.
Sì, un eterno ritorno! Dove l’aria
di questo vento è la stessa che varia
più volte io respirai, e d’altri polmoni,
e che ora è in tuoni,
dove rinasce il fiore che io raccolsi
lo scorso anno e cui un pensier ne rivolsi,
e tutto scorre, e riappare, ma è nuovo
come il germe di un uovo.
Rimane solo quella campanella -
sulla strada - che or giace e ferma, e bella,
e sospesa nel vacuo aër di un vento
che più non c’è.
Or sta suonando gli anni di mia Vita,
in una nenia silente e infinita,
e sempre è immobile, e pendente in suo
andare e ritornar.
Sta piangendo perché non ho più vento! |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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