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Pe’ campi di maggese, e a’ boschi e a’ pietre
e pegl’ansi ruscelli e l’erbe fresche,
e all’orizzonte, e all’incognito e all’etre
in tenzon seguitavan le guerresche
schiere, e all’empio certame e in maglie tetre
n’andavano i messeri, e alle donnesche
chiome alle furie del vento ostinato
di Giovanna volgevan, più che al Fato,
e in tra’i cardi e i covòn e i fiori primi
d’opposte direzion venìa l’affronto,
e i prodi e i paggi, e i destrieri e i sublimi
balestrier or n’andâr, e in sul confronto
coll’inimico in furie e presso gl’imi
cespi pugnâr or in fino al tramonto,
e intorno si coprìa la trista terra
d’urla e di sangue, di strazio e di guerra;
e così si celava in rea boscaglia
l’Anglo che a pugna or funereo moveva,
e presso le betulle e l’alba paglia
de’i rival le masnade omai cingeva,
e quest’insana e meschina plebaglia
crudelmente le schiere trafiggeva,
e al vessillo del rege e folle e avaro
qual folgore n’andava ‘l fiero acciaro,
e in cielo si lagnava ‘l truce dardo,
e un urlo s’irrorava a un spoglio faggio,
quivi che un prode scontava l’azzardo
della brama del lauro e del coraggio,
e un balestrier gagliardo e pur testardo
d’umori ne colmava ‘l campo in maggio,
e la possa struggea la vil campagna
or de’i Plantagenesta e di Bretagna.
Fûr lupi al spalto d’un misero ostello,
terribili le belve, ora i Normanni,
e omai s’insanguinava un pio ruscello,
e in fin de’i nembi tersi i scialbi vanni,
e l’Anglia ne spargea un immenso avello
su cui i suoi figli sedettero in scranni,
e ‘l prode un antro n’ebbe in sull’usbergo,
ma ‘l vile nel sepolcro ‘l freddo albergo;
e all’aër che soffrìa or gli ansiosi squilli
delle diane n’andavan cupi e irati,
e lungi se ne stavan di vessilli
colme le tende de’i duci infuriati,
e anco i Franchi or volgendo in truci trilli
bramarono cangiar gli avversi Fati,
e volsero a mirar la lor Pulzella
come un mendìco all’alba in su’ una stella;
ed ella allor co’ prodi e in triste posse
l’albo destrier spronava, e in man le lame
trepidamente andava e si commosse
pur nel versar del sangue in sul certame,
e al ciel ergendo or l’acciaro le fosse
febbrilmente schiudea al perduto ossame,
e ‘l brando che immergea ne seguitava
a punire ‘l rival che sgomentava.
Ma due messer iniqui e in su’i destrieri
contra costei n’andâr e i brandi in mano -
come fean i valenti cavalieri -
ergevano nel nome or del sovrano,
ed eran crudi e spietati e sì altèri
che opporsi forse sarìa stato vano.
Eppure la fanciulla li esaudiva,
e anch’ella brando in mano or li assaliva:
l’un a destra e a mancina, ed ella in mezzo,
e d’ambo i fianchi ‘l colpo or si vibrava,
e questi la miravan co’ disprezzo
mentr’ella fieramente ‘l disfidava,
e ‘l vento a lei e a’ capei or compiva un vezzo
come un segno divin che s’agitava,
e allorché questa calava ‘l cimiero,
già presso e tetro stava un cavaliero
sicché ‘la in freddo acciaro ‘l trafiggeva
nemmanco col cozzar dell’arme antìche,
e sguainato un pugnal, mentr’ei gemeva,
schivando ‘l colpo dell’altro, e alle spiche
ora ‘l disarcionava e ne immergeva
la lama nelle carni, e l’inemiche
n’ebber sgomento - e tanto! - l’orbe schiere
che si retrocedettero or men fiere.
Allor la dama in furia or l’arme ascose,
e aizzando i suoi guerrieri, si ritrasse,
e a mirar la tenzone a’ fulve rose
mestamente si volse, e all’erbe basse,
e le preghiere diceva armoniose
come se in core si mortificasse,
e quivi e in tra’ l’ortiche udì un bisbiglio
d’un uomo che moriva in gran periglio,
e in sul lontan brandir dell’ansie e oscene
spade, e a’ lagne guerresche e all’urla affrante
questo singulto or s’alzava e le pene
di guerra denunziava - ed eran tante! -
e un labbro ‘l sospirava, e nelle vene
l’umore si scorrea or più che spasmante;
e Giovanna si volse in direzione
sua, qual fanciulla al trillar di canzone,
e mentre s’infuriava ‘l campo ancora,
e ‘l certame gemea di Morte impura,
e intanto che cadea in sur d’una viora
un giovine guerrier, e l’armatura
al pugnal si dolea qual mai finora,
e mentre in lagne or n’andò la Natura,
e frattanto che ‘l cielo s’oscurava
presso ‘l sangue e le piaghe e l’ansia bava,
e intanto che fremeva a San Dionigi
un cavalier de’i Franchi e a San Martino,
e al balenar de’i torvi acciar e grigi,
e al disfidar insano del Destino,
e mentre ne celavan l’orbe effigi
i guerrieri al cimier, or presso un pino
ella scorgea un balestrier morituro
dell’Anglia ricoperto in manto oscuro.
Giacea tra l’erbe folte e in spasmi atroci,
e l’occhio si pascea di santa meta,
e co’ debili e indarne e vane voci
del Cielo supplicava or l’alta pièta,
e in duol dassen se ne stava feroci,
e insanguinata n’era in fin la seta
che all’usbergo s’alzava nobiliare
co’ uno stemma lontan d’immenso mare,
e al fianco si morìa un bruno destriero,
e ‘l core ei si cullava or colla destra
‘ve tra ‘l ferro guerresco e truce e nero
piagato stava ‘l motto: «Majestas Vestra»,
e privo ‘l volto al soffrir del cimiero,
a mancina brandìa fatal balestra,
e in tremiti n’attese e co’ un singulto
gli Inferi ambiti al peccar che fu inulto,
e ‘l scarno volto in ansia or stava e in pianto,
e in lagrime scorrea l’occhio funereo,
e sempiternamente e ansioso e affranto
or i nuvoli ambiva e ‘l Ciel etereo,
e lento sen venìa sempre d’accanto
l’orrido regno d’un verme cinereo,
e pel peccar temea or l’aspra condanna
sicché la pièta n’ebbe in fin Giovanna;
e costei, infatti, e svelta e a lui diresse
e abbandonava ‘l gentil palafreno,
e allor discesa a’ terra e in ciglia oppresse
a confortarlo andava, e a’ Nembi almeno
sincero e puro e sacro omai l’eresse
che in pregar s’inchinò al piagato seno,
e questi le sclamava: «I’ fui Guglielmo;
e cotanto peccai di spada e d’elmo!»,
e a’ stenti s’involava ‘l detto in duolo,
e al labbro ne sgorgava ‘l tristo cruore,
e in cielo de’i rondon mirava ‘l volo,
e all’orecchio n’andò ‘l guerresco ardore,
ed ella si prostrava al negro suolo,
e santa n’invocava ‘l sommo Amore,
sicché co’ membra inchinate e sì prone
dolcemente esaudì una Confessione.
Così dal volto sciolse ‘l ner cimiero,
e ‘l guardo ne mostrava or femminile,
e al morente n’apparve omai foriero
di requie ‘l Ciel ambito, e pur da vile
la pièta del Divin n’udìa, e ‘l mistero
d’un eterno e mellifluo e dolce aprile,
e la Pulzella or tranquillo ammirava
e i suoi peccati oscen ne confessava.
Disse di guerre, e di stragi e di doglie,
come una Furia, la Francia percosse,
volse agli ostelli che strusse e alle soglie,
e sire fu d’inganni e di sommosse,
disse di Vite falciate qual foglie,
e tràttosi in vergogna or si commosse,
e sempre ne tremava all’Immortale
poiché gli anni passò da criminale,
e alla dama negòssi un cavaliero,
e le man le prendea, e ne lagrimava,
fu sol un crudo e fatal masnadiero
che ovunque e in nom del rege assassinava,
e al colpo estremo si seppe sì altèro
che di paüra insana or ne tremava,
e seguitando disse d’altre gesta
che la Morte rendevan più funesta:
corse a’ villaggi de’i Franchi e chiedeva
donne e danari, e bestiame e scudieri,
e quivi le capanne or spesso ardeva
a’ vivi in fin scagliando gli aspri ceri,
e al vespro e in sul tramonto si sedeva
dove una fiamma sen stava e a’ sentieri,
oppure si pascea d’un bel banchetto
tra’i vini e ‘l sangue e l’odi, e ‘l vil diletto,
e or che a un braccio fatal giacea lambito,
i crimini ei ne pianse e chiese vènia,
ma non come ‘l fa un crudel bandito
che a gabbare l’Eterno or pur s’ingegna,
e la dama ei implorava or più smarrito,
ed ella ne sclamò una mesta nenia,
e perduta nel Ciel e udendo un tòno
ben certa n’era di dargli ‘l perdono.
Ma d’un tratto ‘l cavalier si fece cupo,
e mesto si gridava in lamentanza,
e della Morte attesa in sul dirupo
sempre più ne piagnea, e siccòme avanza
l’ora temuta, or qual grido d’un lupo
spirante ei n’accennava una romanza,
e alla dama narrò dell’Inghilterra
che abbandonava un dì per far la guerra,
e così la Pulzella l’ascoltava,
e nel core or lo stava compatendo,
e anch’ella - la guerriera! - ‘l lagrimava
come Achille in sul piè del rege, e ardendo
di candida virtute ‘l consolava
esorcizzando a lui l’Inferno orrendo,
e come una nutrice ‘l prese al volto
e al seno lo posava e in vezzi e molto,
e la destra ansimante a’ suoi capei
in carezze volgea di caritate,
e come un figlio ‘l prese e in grazia, ed ei
febbrile ne lodò le chiome aurate,
e dolcemente s’erse ai Ciel costei
colle ciglia al Signore or consacrate,
e più non era ‘l duce che or credete
ma in femminil vestito un santo prete.
Allor ‘la ne cingea un picciol pugnale,
e in modo ‘l prese che fece una Croce,
e docile ‘l mostrava al spir fatale
di lui che svelto andava al verme atroce,
ed ei con questo volse all’Immortale
l’arida possa dell’ultima voce,
e mentre ‘l mirava, e in fin lassù,
mestamente inneggiò a Cristo Gesù,
e col guardo smarrito e sempre affisso
alla dama or temprò un recordo ameno,
e a costei lo diceva e al crocifisso
sibben dicendo stesse: «Oh quanto peno!»,
e sempre e più in sull’orlo dell’abisso
alla Patria rivolse ‘l cor sereno,
e in rimembranze scorse ‘l caro ostello
che poco visse col padre e ‘l fratello.
Così ben si giovò del suo paëse,
e del grano maturo in sull’Estate,
e della sua famiglia - e fu gallese -
e pur di Canterbury ‘l sommo Vate,
e de’i campi e de’i boschi e di maggese,
e delle fitte selve un dì adombrate,
e degli stemmi antichi e dell’effigi
e dell’acque ridenti in sul Tamigi,
e dolce rammentava i gran tornei,
e le cacce a’ cinghiali e a’ cervi e a’ tordi,
e de’i certami altèri i buon trofei,
e del liuto i cortesi e molli accordi,
e pur tra questi ‘l guardo di colei
che gli fu sposa e cui i sensi fûr sordi,
e abbandonato un giorno ‘l queto tetto,
e la donna, e le serve e un pargoletto,
e quivi che in immenso e reo dolère
morituro giacea, in quest’ansio detto
tremendo mormorava ‘l dispiacere,
e pallido n’andava omai d’aspetto,
e fioco n’ansimava le preghiere
com’uom che già sen va d’Iddio al cospetto,
e ancora rammentò la gioventude
‘ve quasi gli mancò ogni gran virtude,
e in pianto rimembrava una riviera,
e all’orizzonte etesio i scoti monti,
e di Dover la scialba e pia scogliera,
e del Galles le ripe, e i boschi e i fonti,
e l’Inghilterra in fior di Primavera,
e i bei e cavallereschi e gaudi affronti,
e sconfinata e gentil la campagna
che l’anglo fiume biancheggia e che bagna,
e del torneo gioviale l’alte iscuse,
e del Nord le perenni e fredde nevi,
e l’iscozzesi e sacre cornamuse,
e i rustici palagi e l’albe pievi,
e ‘l nunzio della guerra che l’illuse,
e de’i vascelli i legni e torvi e grevi,
e immobili le spume or d’empio mare
che non potea tuttora e più ammirare,
e a rammentar piagnea della Tempesta,
e della tremolante e pia marina,
e i peccar ripeteva e l’egre gesta,
e la Furia che ‘l mosse ognor meschina,
e tetro rimembrò ‘l Plantagenesta
dell’Anglia eterna Notte e non mattina;
e Giovanna che quivi ‘l compativa
dolce e maternamente or l’accudiva.
Alfine ‘l sire or disse: «A me l’acciaro
sicché quest’alta Croce or n’abbia al petto»,
e la fanciulla ‘l diede, e al cor e amaro
ei sel mise sereno e pien d’affetto,
ed ella a terra pose or questo caro
che al pugnal or volgea ‘l dolente aspetto,
e poscia un guardo solo ei ne spirava
col sangue al labbro aperto e colla bava.
Allor Giovanna or disse: «Vi perdono»
e segnandosi, in pianto or stette e molto,
e all’occhio suo n’apparve un fior d’un tòno,
e ‘l Paradiso apparve al mesto volto,
e all’orecchio n’udì un festoso sono
che dir parea a costei: «L’abbiam accolto!»,
e intanto l’Anglo altèro ne fuggiva,
e pietoso ‘l Francese or nol seguiva.
Così la santa dama al suo Divino
l’impresa ne compìa, e pure in misfatto
santificata pose e al gran Delfino
un serto che gentil concluse ‘l patto.
Ma l’Inferno segnava a lei ‘l Destino
nel vendicar se istesso; e allor d’un tratto
Satana a’ Franchi or ne diè ‘l tradimento,
e a lei una Curia infame un patimento.
Ma d’eterno momento
Giovanna in Ciel si pasce e al suo Signore
d’eterno e puro e vero e santo Amore! |
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